domenica 27 marzo 2011

i vicerè

È del 1894, I Viceré, uno dei massimi capolavori della letteratura italiana, uscito fuori dalla penna verista di De Roberto. Al suo apparire e per molto tempo, il romanzo non ebbe fortuna, anche, ma non solo, per la stroncatura senza appello che gli appioppò l’estetica da governante del Croce. La retorica risorgimentale, di cui oggi festeggiamo i 150 anni della sua puntuale riproposizione, non poteva sopportare molto un romanzo che faceva piazza pulita del mito unitario.

Il romanzo si snoda a cavallo dell’impresa garibaldina dei mille e narra le vicende della nobile famiglia Uzeda di Francalanza, i Viceré appunto dei Borboni, il cui destino, senza che vi sia del fatalismo, perlomeno in chi scrive, è quello di governare sia prima che dopo il passaggio di consegne tra la monarchia spagnola e quella sabauda.

A livello dei personaggi, l’opera è imperniata sull’apparente contrasto tra Don Giacomo Uzeda, Principe di Francalanza, e il principino Consalvo, suo figlio. Contrasto che De Roberto segue fin dall’infanzia del principino, smussandone via via gli angoli, per scioglierlo nell’ultima parte del romanzo in una sostanziale continuità. Consalvo, in effetti, è il vero erede di Don Giacomo, e il contrasto col padre, apparentemente di valori e di ideali, non può che essere alla fine solo un banale scontro generazionale tra il vecchio e il nuovo modo di difendere gli stessi interessi.

Sullo sfondo dell’alleanza tra la borghesia industriale del Nord e l’aristocrazia terriera del Sud su cui s’imperniava la nascente industrializzazione capitalistica italiana, il romanzo non concede spazio a sentimenti, emozioni o altre pose romantiche. Tutto è calcolo, cinismo e arrivismo, comprese fede e superstizioni che fanno solo da supporto. I rapporti sono bloccati. Le donne non contano. L’interesse costringe alla capitolazione ogni timido tentativo che i personaggi fanno, qua e là, di ribellarsi.

Per il pessimismo senza speranza, ma anche senza rimpianti, con cui De Roberto narra i primi passi dello Stato unitario, il romanzo è stato associato a Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa. Il paragone è più che pertinente, anche se va detto che è De Roberto ad anticipare Tomasi di Lampedusa. La famosa frase in cui si riassume Il Gattopardo, «se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi», è anticipata da De Roberto nella parodia che fa del motto del D’Azeglio: «Ora che l’Italia è fatta, dobbiamo fare gli affari nostri». I Viceré son tutti qua, immobili nella loro sete di dominio. La ribellione di figli e figliastri non riesce mai perché in fondo è finta, troppo compromessa e assoggettata a un mondo che tutto sommato accettano e condividono. La prosa di De Roberto, lenta e sicura come la vita oziosa di questi nobili, segue tutte le incoerenze dei personaggi, ben conscio che l’unica coerenza che possa dare solidità alla narrazione, è la fedeltà assoluta all’interesse personale della famiglia Uzeda.

La modernità dell’opera, oltre al suo indubbio impianto laico, merce rara all’epoca e non troppo disponibile nemmeno ora, si può anche trovare in alcune felicissime trovate dell’autore che non possono non stupire il lettore d’oggi. Si resta ad esempio sbalorditi, nello scoprire come rassomigli a qualcuno il modo in cui Consalvo si comprerà un seggio in Parlamento. I Viceré dei Borboni, cambieranno subito bandiera, non appena Consalvo capirà che basterà un po’ di demagogia per entrare nelle grazie dei Savoia. Per convincere i suoi concittadini a votarlo, sarà a favore della proprietà privata e contro lo sfruttamento, per la laicità e al tempo stesso per la religione, ma soprattutto sarà per la pubblicità di sé stesso. Non convinto del tutto dalla sua retorica, infatti, Consalvo aggiungerà una specie di opuscolo da regalare a tutti i suoi “sudditi” poco prima del giorno delle elezioni. Come non vedere in questa campagna, il precedente letterario che anticipa lo stucchevole analfabetismo sottoculturale con cui il Viceré, Uzeda-Berlusconi, ha chiesto alla nazione di mandarlo al potere? In effetti, a ben guardare, Una Storia italiana non è che la riedizione aggiornata con cui si è conclusa la preistoria borbonica.

Oggi che il successo e la grandezza del romanzo di De Roberto, sono finalmente riconosciuti, si corre però il rischio opposto di sopravvalutarne lo spirito nichilista. L’immobilismo eterno con cui De Roberto e Tomasi di Lampedusa guardano alle cose umane, è spesso associato al presunto carattere dei siciliani, ma almeno per De Roberto si può forse ipotizzare che fosse più che altro dovuto al contesto storico-culturale da cui proveniva. Ai tempi de I Viceré, il socialismo in Italia muoveva i suoi primi passi, e Marx ed Engels erano ancora sommersi tra il positivismo, l’idealismo piccolo borghese e l’anarchismo. Ci sarebbero voluti ancora parecchi anni prima che attecchisse la concezione scientifica del moderno progresso socialista. E una volta attecchita, poco più di un lustro bastò per sommergerla di nuovo nel medioevo stalinista da cui ancora non è risorta.

Perciò, anche se apparentemente la Storia sembra aver dato ragione al pessimismo senza speranza di De Roberto, noi operai non possiamo unirci al coro disfattista con cui a 150 anni dall’unità borghese d’Italia, parecchia intellighenzia ha riproposto, con rabbia, la “quistione meridionale”. Per chi è armato del metodo storico marxista, non dicono niente di nuovo le lamentele in forma di libro contro l’occupazione, l’assoggettamento e la repressione con cui i briganti del Nord si annettevano i contadini del Sud, in vista della loro proletarizzazione da immettere nell’incipiente mercato nazionale.

La mancata rivoluzione del Risorgimento, era in realtà l’unico modo possibile ai borghesi per rivoluzionare i rapporti di produzione in Italia. L’aumento del divario Nord-Sud, non è l’indice del fallimento unitario, al contrario mostra il suo strepitoso successo, dietro al quale si cela la vera contrapposizione, tra padroni e salariati, che permea l’Italia come tutto il resto del mondo.

Solo col completo dispiego del capitalismo è possibile portare pienamente allo scoperto il contrasto fondamentale tra padroni e operai e liberarsi degli ultimi Borboni senza corona che infestano l’Italia. Tornando indietro, al Regno Delle Due Sicilie, è impossibile.

Tuttavia, se questo non è ancora avvenuto, non è per l’immutabilità delle cose o perché il nichilismo dei senza speranza alla De Roberto, abbia avuto ragione. Il motivo è meno metafisico e più terra terra, e va ricercato nel fallimento secolare, storico della sinistra. Infatti, mentre borghesi industriali, proprietari terrieri, preti e altri redditieri, si alleavano per difendersi coi denti e con le unghie dall’ascesa del proletariato, in 150 anni di Storia, la sinistra tutta, invece di sentirsi intimamente legata alla nostra sorte, ha finito in un modo o nell’altro, specie nei momenti decisivi, col farsi anch’essa – purtroppo! – gli affari loro.





(a Giovanni Forti chiunque sia la sua governante)

giovedì 16 dicembre 2010

SERVI E LIBERTADOR SUI GENERIS

Ciò che è grave, caro Massimo Fini, non è che "a questi insulti sanguinosi rivolti al nostro presidente del Consiglio, il Governo italiano non solo non abbia emesso un vagito, un raglio, non abbia fatto una piega", eccetera. Non vedo, infatti, dove sia la gravità. Quello che è grave è l’abbaglio che continui a prendere, testardo, per voler attribuire a tutti gli italiani le caratteristiche di un pugno di individui. Caratteristiche oltretutto sbagliate. Non sono servi Berlusconi, La Russa e Frattini, ma padroni o loro rappresentanti, che servono il padrone più grosso perché solo così possono restare tali. È una comunella di classe non un servilismo di Nazioni che, come sosteneva giustamente Howard Zinn, esistono solo nella testa di chi se le inventa. Non c’è niente di più ridicolo di chi chiede a un padrone di liberarsi da un padrone più grosso, solo perché non ha neanche immaginato le ricadute delle possibili conseguenze. E se smettendo di "servire" i padroni americani, questi utili idioti, invece di sentirsi liberi, non facessero più “utili” e si trovassero di colpo declassati e in brache di tela a fare gli schiavi veri, cioè i proletari schiacciati dall’imperialismo americano? Gli “utili idioti” lasciano volentieri questa libertà in mutande agli “inutili geni”. L’alleanza con gli americani, così come quella con Putin, serve ai padroni italiani per fare più utili possibile in ogni dove. Esattamente come la rottura o gli equilibrismi tra questi ed altri contendenti, qualora ciò sia conveniente. È insomma la borghesia, in base ai soldi che guadagna, a stabilire con chi fare accordi e se sia utile o meno invadere l’Afghanistan, non la piccola borghesia che vaneggia, pretendendo dalla borghesia che sostituisca il suo interesse materiale, di cui è pienamente cosciente, con quello ideale di cui la piccola borghesia è totalmente incosciente.

Il nemico non sta né a est né a ovest, ma in tutto il mondo e specialmente in casa propria, nel proletariato, non in un altro padrone, e la crisi del 2008 dovrebbe quantomeno farlo rientrare all'orecchio. Un altro padrone è in fondo è sempre un amico anche se temporaneamente in guerra. Se la Nato presidia ancora la vecchia Europa, insensato è solo una articolo incapace di rendersi conto che forse, vista la sua sopravvivenza, lo scopo che gli attribuiva non è mai esistito. La Nato non aveva nessuno scopo difensivo, perché il capitalismo può difendersi solo andando all’attacco. All’attacco in primo luogo dell’orso rosso che se ne sarebbe stato volentieri in letargo nel suo guscio burocratico in un paese solo (non s’è mai visto un solo burocrate che abbia una qualche iniziativa che non sia girarsi sulla sua poltrona. Le poche che i russi hanno preso sono quasi tutte dei riflessi più o meno involontari, niente a che vedere con una politica aggressiva vera e propria tipica del capitalismo nella sua fase imperialistica). In secondo luogo all’attacco dei figli dell’orso rosso traditi e lasciati soli dalla madre Russia in balia della repressione atlantica, oltreché della sua, della quale borghesi e piccolo borghesi, “utili idioti” e “inutili geni”, manco si sono accorti. Ora la madre Russia è morta, ma i figli sparsi in tutto il mondo continuano a rappresentare un problema. Per liberarsi della Nato, cioè degli Stati Uniti, la borghesia nostrana dovrà essere sicura d’essere più forte. Fino ad allora, la Nato, alias imperialismo americano, sarà fonte di garanzia contro le insurrezioni di studenti che preannunciano quelle ancor più temute degli operai. Non ci sarà alcun pesantissimo pedaggio da pagare, perché sarà scaricato tutto sulle loro spalle che manterranno sia l’Orso Yoghi sia l’Orso Nano, sicuri che ci sarà abbastanza torta da spartire per essere felici entrambi.

Mentre il banchetto andrà avanti, noi proletari ben piantati con le radici nella nostra classe, non ci immischieremo nelle beghe dei padroni, li lasceremo tranquillamente leccarsi il culo a vicenda. Ci arrabbieremo soltanto coi medi borghesi che, incapaci di scendere al nostro livello, attribuiranno anche a noi le loro peculiarità, la principale delle quali consiste nel non saper scegliere tra le due classi, illudendosi di poter stare in un improbabile equilibrio interclassista, di fatto implorando, come tutti i servi, alla classe sbagliata, l’emancipazione da un padrone che può venire solo dall’altra.


sabato 11 settembre 2010

DIFFERENZA ECONOMICA TRA LO STRAORDINARIO E L'ORARIO PLURISETTIMANALE

Per capire quanto si perde facendo l’orario plurisettimanale al posto dello straordinario, può essere utile questo esempio. Si immaginino due operai diversi, Pinco & Pallino, e si immaginino anche i mesi di soli 28 giorni, ovvero quattro settimane nette. L’operaio Pinco lavorerà due mesi a orario plurisettimanale, Pallino a orario normale. Il primo mese Pinco, dovendo fronteggiare il picco di lavoro dell’azienda, lavorerà tutti i 28 giorni, cioè 5 giorni a paga normale e due a paga plurisettimanale, per quattro settimane di fila. Alla fine del mese avrà lavorato 160 ore normali (8 ore al giorno per 5 giorni per 4 settimane) più 64 ore plurisettimanali (8 ore al giorno per 8 giorni, ovvero i sabati e le domeniche di 4 settimane. L’YKK, ovviamente, non chiede di lavorare la domenica, mentre al sabato vuole solo 6 ore, ma per capire la differenza economica l’esempio va bene lo stesso). Il secondo mese Pinco, dovendo recuperare le ore plurisettimanali, lavorerà solo dal lunedì al mercoledì. Giovedì e venerdì se ne starà a casa percependo come paga le 64 ore plurisettimanali fatte il mese scorso. Alla fine, la paga dei suoi due mesi, ipotizzando un III Livello e Quattro Scatti di Anzianità, cioè 8,9971 euro all’ora, arrotondati a 9, sarà di 9 euro per 320 ore, ovvero 2880 euro. A questa cifra va aggiunta la maggiorazione del 25% per le 64 ore plurisettimanali. Tale maggiorazione ammonta a 144 euro (9×64= 576. E il 25% di 576 è 144). La paga finale sarà dunque 3024 euro lorde per due mesi.

Pallino, invece, dovendo fronteggiare con orario normale il picco dell’Azienda, lavorerà 320 ore normali (160 per due mesi) più 64 ore straordinarie il primo mese. La sua paga sarà di 3744 euro lorde, cioè 2880 euro più 64 ore straordinarie pagate il 50% in più. E 64 ore straordinarie al 50% fa 864 euro ( 9×64= 576 più il 50% di 576 e cioè 288 ovvero 864). Come si vede l’operaio a paga plurisettimanale ci perde 720 euro. Ed è una perdita netta visto che gli straordinari non sono tassati. Per chi ha un livello superiore al III, la perdita è ancora più secca, per chi l’avesse inferiore, invece, un po’ meno brusca.

È vero che l’operaio a paga normale, per avere 720 euro in più, fa anche 64 ore in più di lavoro, ma è vero che le fa in maniera più regolare. Inoltre, da quando è stata istituita la banca ore per tutte le ore dello straordinario, nulla vieta all’operaio a paga normale di farsi pagare solo la maggiorazione del 50% e di tenersi buone le ore fatte in più come futuri permessi in caso di calo di lavoro, proprio come avesse fatto un orario plurisettimanale al 50%. Insomma, l’Azienda potrebbe ottenere lo stesso effetto dell’orario plurisettimanale, senza bisogno di accorciare la paga. Sennonché, senza accorciare la paga, non potrebbe alzare il profitto. Ed è per questo che vuole l’orario plurisettimanale, mica per evitare la cassa integrazione ai lavoratori. La preoccupazione dei lavoratori in cassa integrazione non l’ha mai sfiorata manco di striscio. Se così non fosse, infatti, in cassa integrazione, nel 2009, ci sarebbe finita lei e tutta la dirigenza, non solo gli operai. Naturalmente, la dirigenza non poteva mettersi in cassa integrazione: come può, infatti, venire a mancare il lavoro a chi in fondo non l’ha mai fatto?

È importante ancora osservare come l’operaio al lavoro, con l’orario plurisettimanale, entri sempre più in fabbrica solo quando c’è da tirarsi il collo, senza più avere la gratificante sensazione, che ha nei momenti di calo, di essere pagato per fare più o meno un tubo come lor signori. La concentrazione dello sfruttamento aumenta del 200%. Lo stress del 400%. Solo la paga resta pressoché uguale, perché l’operaio non ha più nemmeno l’occasione di raggranellare qualche briciola in più, con qualche ora di straordinario. Con l’orario plurisettimanle, inoltre, gli operai vengono divisi nel momento migliore per eventuali scioperi. Con mezza fabbrica a casa e mezza al lavoro, diventerà improponibile anche solo indire un’assemblea. Il vantaggio per l’Azienda è totale e assoluto sotto tutti i punti di vista. Lo svantaggio per i lavoratori, non lo vede solo chi è talmente miope da rasentare la cecità.

La vecchia volpe che si nasconde dietro l’YKK, naturalmente, spiega che solo così si può evitare la cassa integrazione. Già solo il fatto che si presenti l’orario plurisettimanale nell’interesse del lavoratore, dovrebbe far drizzare subito le antenne a qualunque operaio. Solo un’azienda che abbia il coraggio di parlare nel suo interesse, è vagamente credibile. Siccome un simile coraggio non ce l’ha praticamente nessun padrone, che deve sempre mascherarsi da benefattore filantropo delle genti salariate, ogni volta che aprono bocca è sempre contro gli interessi dei lavoratori.

Nel caso specifico, la falsità dell’assunto si scopre facilmente. L’azienda, infatti, parla di calo di lavoro, di crisi ed eventuale cassa integrazione come fossero semplici questioni meteoropatiche. Non sono le stagioni dell’anno a mettere in cassa integrazione i lavoratori, ma quelle epocali dello sfruttamento. Calo del lavoro, infatti, vuol dire calo della produzione e quindi delle vendite. Prima che dalle sgangherate previsioni del tempo della Direzione, le vendite sono regolate dal consumo, e il consumo è regolato dalla disponibilità economica dei lavoratori. Senza trovare sul mercato una parte del salario d’un operaio che si ricompra la cerniera che ha prodotto, il rischio di crisi aumenta per l’YKK come per ogni altra azienda. La crisi devastante del 2008, come tutte le crisi capitalistiche, è dovuta solo a questo, alla polarizzazione della ricchezza: troppi profitti accumulati da una parte, troppa miseria accumulata dall’altra. Chiunque abbia un po’ di dimestichezza con l’economia, può facilmente constatare, dati alla mano, che all’apice della crisi, c’è stato un accumulo di profitti senza precedenti nella Storia. Solo in Italia negli ultimi 30 anni, 120 miliardi di reddito, sono passati dalle tasche dei lavoratori a quelle dei padroni. 7000 euro in meno all’anno ha ogni operaio in busta paga. La crisi sta tutta qua. Altro motivo per la cassa integrazione, speculazione sui soldi pubblici a parte, non c’è.

Nel sistema capitalistico è impossibile evitare le crisi, che sono un fenomeno ricorrente, ma quanto più alto è il salario, meno brusche sono le crisi e più rapide sono le successive riprese. Inoltre, più è alto il salario, più l’operaio è in grado di difendersi dalla crisi con quel poco che è riuscito a raggranellare prima del suo avvento. Accettando di schiacciarsi il salario per paura di finire in cassa integrazione, l’operaio non fa che accelerare i tempi in cui ci finirà dentro senza neanche due soldi di salvataggio messi in saccoccia prima. Non è un caso, infatti, che gli economisti più illuminati, per esempio il pedante Paul Krugman1, vedendo come si stia cercando di uscire dalla crisi comprimendo i salari, lancino l’allarme contro il rischio sempre più alto che la crisi si avviti su sé stessa. Naturalmente, idioti come sono praticamente tutti gli economisti moderni, compresi quelli più illuminati, lanciano allarmi a Governi e Stati, cioè ai padroni, nella vana speranza che siano loro stessi ad alzare i salari. Ma quando mai? Fino a che i salari non si alzeranno da soli, sotto la spinta cioè dei salariati, i governi non li alzeranno di un centesimo. E i lavoratori si alzeranno da soli la paga, quando abbasseranno contemporaneamente i Paul Krugman, dal ruolo di inutili tromboni saliti in cattedra, a quello di semplici bidelli ignoranti le più elementari leggi economiche della lotta di classe.

Se perciò un operaio ha dei dubbi su cosa fare, quando non riesce a capire se una determinata scelta lo metta al riparo dai rovesci della crisi e della cassa integrazione, guardi sempre la busta paga: non c’è miglior bussola per lui. Se vede alzarsi la paga, stia relativamente tranquillo, perché le nuvole della crisi si allontanano; se invece la vede abbassarsi, si prepari perché quelle stesse nuvole si fanno nere e minacciose, e la catastrofe si avvicina più rapida della luce.



Nota – Ho spiegato come il pericolo di cassa integrazione aumenti di pari passo con l’accorciamento della paga, in uno degli ultimi incontri con la Direzione. La Direzione aveva preparato un terrificante schemino alla lavagna, per mostrare, in maniera pilotata, come l’operaio che avesse accettato l’orario plurisettimanale fosse avvantaggiato rispetto a chi l’avesse rifiutato. Lo schemino altro non era che un’esca per prendere all’amo le 6 componenti la RSU. Inutile dire che 5 abbiano abboccato subito. La sesta, che credeva d’essere al tavolo con la Direzione, ha scoperto così di essere in realtà al banco dei pesci!

Racconto questo episodio in nota più che altro perché gira voce che io negli incontri con la Direzione non apra mai bocca. Naturalmente, non è assolutamente vero. Mi limito a dire le uniche cose essenziali e furbe che vadano dette, senza prestarmi al ruolo di marionetta nell’interminabile messinscena di parole fumose e vuote della Direzione. Quel poco di essenziale che dico, inoltre, non lo dico per la Direzione, ma per la comprensione della RSU (se solo facesse lo sforzo di comprendonio) e quindi dei lavoratori. Della comprensione della Direzione, come del dialogo con essa, infatti, poco o nulla me ne cale, tanto più quando il dialogo è completamente finto.


1 Trovate i suoi articoletti in quel gazzettino di provincia che si chiama Internazionale. Se avete la tessera del Circolo Arci di Vercelli, potete pure leggerlo a scrocco come faccio io, risparmiando i soldi per una rivista che non ha affatto il valore che sbandiera!

domenica 4 ottobre 2009

Scarica programma

Programma completo in formato doc

Sintesi del programma in formato doc

La sintesi del programma è stata fatta quasi in blocco dal collega Piero Bullone che ringrazio per l'aiuto e la disponibilità

Programma per la candidatura a RSU dell'YKK

"RESISTERE UN MINUTO PIÙ DEI PADRONI"


...la lotta rigenera il mondo

la lotta rigenera l’uomo...♫

V.FRANCESCHI

Due parole di presentazione – Operaie, operai, non so dire se io sia la persona adatta, ma da tempo avrei piacere di occuparmi in prima persona dei nostri problemi. In fin dei conti, la cosiddetta “questione operaia” mi ha sempre appassionato. Inoltre, più di una persona in questi anni mi ha chiesto di candidarmi. Fino ad oggi, pur ringraziando, ho sempre deciso di declinare l’invito. Solo negli ultimi tempi m’è venuto il dubbio che forse, non aver accettato la proposta, è stato un po’ come tradirla. Può darsi che mi tocchi pagare dazio per questa assenza ingiustificata. Di norma, infatti, bisogna cogliere le occasioni quando arrivano. A rimandare si corre il rischio di perdere il treno. Quando la classe operaia o buon parte di lei chiama, bisogna rispondere senza indugi presente! Almeno questa mi pare la lezione da trarre – e che ho tratto – dai miei dieci anni di fabbrica. Tuttavia, se finora non mi sono mai candidato, è soltanto perché ho creduto un po’ ingenuamente che partecipando alle assemblee e alla vita attiva del sindacato, avrei potuto comunque fare la mia parte. Dall’avvento del secondo Governo Prodi in avanti mi sono reso conto d’aver commesso il più grossolano degli errori. Mai come negli ultimi 3 o 4 anni abbiamo assistito a una capitolazione pressoché totale delle burocrazie sindacali di fronte all’avanzata di Governo e Confindustria alleati. Il semplice impegno di tesserato non basta più. Occorre provarci in prima persona. È per questo che mi sono candidato.



Preambolo – Il sindacato è nato per difendere gli sfruttati, gli emarginati e i deboli dai soprusi dei potenti. Da anni, purtroppo, difende più che altro la sedia dei tanti burocrati che l’hanno scambiato per l’ufficio di collocamento del loro menefreghismo in carriera. Perciò, il primo scopo di una RSU con un po’ di sale nella zucca, è rimetterlo in fretta in carreggiata, a totale disposizione degli operai che ne pagano il servizio. Mi sembra giusto, quindi, che chi si candida contro i forti a difesa dei deboli, abbia un programma che parta dai problemi degli ultimi tra gli ultimi: gli interinali. E per interinali io intendo tutti i co.co.co, gli schiavi dei contratti a progetto, i semi-disoccupati e insomma tutti coloro che non hanno un contratto “fisso” a tempo indeterminato. È vero, la crisi del 2008, unita alla rassegnazione più totale degli operai e delle loro rappresentanze, ha spazzato per ora dalla fabbrica ogni lavoratore interinale. Se da ciò qualcuno vuole dedurre che, attualmente, in fabbrica, il problema del lavoro interinale non esista più, si sbaglia di grosso. È l’esatto contrario. L’assenza di una cinquantina di lavoratori interinali, aggrava il problema del precariato. Per l’azienda, 50 precari buttati in mezzo alla strada, sono la necessaria premessa per la “precarizzazione” di tutti gli altri. Cassa-integrazione e riduzione del salario, giunti subito dopo l’eliminazione dei precari, ne sono la più brillante delle conferme: l’operaio “fisso” di oggi, è solo il precario di domani, di conseguenza un futuro fatto di precariato si avvicina tanto più rapidamente quanto più l’operaio che si crede “sicuro” se ne frega degli “insicuri”. Perché, in definitiva, operai “fissi” e interinali, sono una cosa sola. Chi accetta l’attuale e artificiale separazione degli operai in due gruppi, “fissi” e precari, fa solo il gioco del padrone. E a maggior ragione lo fa, come nel recente passato, chi dà priorità alla tutela dei “fissi”. Poiché i “fissi” rispetto ai precari, pur nella miseria, sono soltanto dei privilegiati e i privilegi, purtroppo, dividono la classe operaia, la cui unica forza sta nella sua unità più indissolubile. Solo partendo dalla difesa dei precari si difendono anche i “fissi”. Chi privilegia i privilegiati, in ultima analisi, è solo un incosciente che non si rende conto di attaccare i diritti di entrambi. A ciò si aggiunga, per dovere di precisazione, che il crescente precariato sta riempiendo i sindacati di tesserati “interinali”. I sindacati vengono cioè sempre più finanziati dai lavoratori senza diritti. E per una RSU, farsi mantenere dagli interinali per difendere solo i “fissi”, vuol dire rubare altri soldi a chi ha già la paga dimezzata. Nessuno, quindi, venga a chiedermi di andare dietro alla separazione artificiale tra “fissi” e precari, o di firmare accordi che escludano uno dei due gruppi, perché non lo farò mai. Si vince o si perde tutti assieme. Una vittoria parziale dei “fissi” che escluda i precari, come hanno dimostrano gli ultimi avvenimenti, non è che il preludio a una doppia sconfitta che vanificherà prima ancora che se lo riescano a godere, il presunto successo degli operai a tempo indeterminato.



Lavoratori precari per la precaria difesa del sindacato! – Il progressivo scollamento delle burocrazie sindacali dai lavoratori, ha reso indifferenti i più, ha convinto altri a stracciare la tessera, infine ha portato alcuni ad iscriversi ai nuovi sindacati extra-confederali. Ciascuna di queste tre scelte, soprattutto le ultime due, sono radicalmente sbagliate e dannose. Tutti i lavoratori dell’YKK, dal primo all’ultimo, compresi addetti alle pulizie, personale mensa e magazzinieri, devono essere tesserati il più rapidamente possibile. Non sarà facile mettere assieme operai che apparentemente lavorano per ditte diverse. Ma le difficoltà, già enormi, continueranno a sembrare insormontabili fino a quando operai che lavorano sotto lo stesso tetto non si considereranno una cosa sola. A loro sfavore giocano anche le ultime leggi padronali che hanno diviso, per decreto, chi era già unito dalla medesima realtà in cui lavorava. La premessa per rimetterli assieme, è provare anzitutto ad unire, sulle basi delle attuali leggi anti-operaie, chi già oggi può farlo. Come da preambolo, questo programma, affronta la questione partendo dalla sindacalizzazione degli ultimi tra gli ultimi: gli interinali.

Devono gli interinali iscriversi ai sindacati? Per rispondere bisogna anzitutto chiedersi cosa sia un interinale. Un interinale è un operaio a cui hanno tolto dei diritti prima ancora che cominci a lavorare; un operaio che ancora prima di mettere piede in fabbrica è già stato attaccato dai padroni nei suoi più elementari diritti. Di conseguenza, un interinale che aspetti di diventare “fisso” per iscriversi ai sindacati, è come un cane preso a calci che aspetti cinque anni prima di mordere chi l’ha attaccato. Ed è “giusto” che chi non si ribella al primo calcio nel sedere, venga a preso a calci per il resto dei suoi giorni, cioè non diventi fisso mai.

Naturalmente, per essere incentivato a iscriversi ai sindacati, un interinale avrebbe anche bisogno di Rappresentanze Sindacali Unitarie che sappiano dargli un motivo valido per farlo. Finché un interinale avrà come ho avuto io, e presumo molti che staranno leggendo, RSU superficiali che sanno solo dirgli iscriviti qui, iscriviti là, in base a interessi di parrocchia, non si potrà addossargli tutta la colpa della sua mancata iscrizione. Fin dal primo giorno in cui mette piede in fabbrica, un operaio e tanto più se è interinale, deve iscriversi ai sindacati, perché la tessera sindacale è la prima e più elementare difesa che un lavoratore può mettere in campo contro il padrone che lo sfrutta. Se i sindacati fossero del tutto corrotti o non servissero più a niente, i padroni non sarebbero affatto seccati, oggi come ieri, da ogni lavoratore che decida di iscriversi a una qualunque organizzazione. Non c’è nuova tessera che non irriti, nel profondo, tutti i padroni, perché ogni padrone sa che da quel momento non potrà più contare sulla disorganizzazione totale del lavoratore che decida di farla. Non c’è diritto, anche il più scialbo, che gli operai abbiano ottenuto senza organizzazione. L’unico diritto che gli operai hanno ottenuto al di fuori delle loro organizzazioni, è il diritto di organizzarsi. E l’hanno ottenuto, va da sé, all’alba del loro movimento, creando sottobanco, contro chi glielo voleva negare, una prima rudimentale forma di organizzazione. Del resto, se un interinale si guardasse bene dentro, scoprirebbe che il motivo per cui non si iscrive al sindacato, non è tanto il menefreghismo o la corruzione dei dirigenti, quanto la paura di essere discriminato dal padrone. Ma la paura di rimetterci il posto che un interinale prova di fronte alla possibilità di iscriversi al sindacato, non è che il riflesso del terrore che il padrone ha dell’operaio sindacalizzato. Se cercava una motivazione per iscriversi al sindacato, un interinale, non avrebbe potuto trovarne una più valida e profonda di questa.

Oggi, nel pieno sviluppo delle sue organizzazioni, rinunciando o stracciando la tessera, cioè disorganizzandosi, un operaio non fa che dare, lo voglia o meno, un appoggio ulteriore a chi tenta di togliergli quei pochi diritti che gli restano. Molti lavoratori che hanno disdetto la tessera, dicono che la colpa è dei sindacalisti che non li difendono, o peggio che si sono accordati sottobanco coi padroni. Pur non avendo tutti i torti, i lavoratori che hanno disdetto la tessera, ritirando la fiducia ai sindacati, dovrebbero ribaltare la prospettiva chiedendosi cosa hanno fatto loro per rimettere a posto i sindacati. Perché questo è il loro compito quando il sindacato gli sfugge di mano. Se si avrà il coraggio di guardarsi ben bene dentro, si scoprirà che il marciume al suo interno è generato in massima parte dal sempre più scarso interesse che i lavoratori mostrano per il sindacato. Sarà bene comunque sottolineare, a scanso di equivoci, che l’attuale apparente menefreghismo di molti lavoratori, è il risultato storico di una serie interminabile di sconfitte che hanno colpito la classe operaia, minandone la fiducia alla base. Per tale motivo, più che prediche e sermoni, ci vorrà qualche vittoria epocale per invertire la tendenza. Prima i lavoratori si tessereranno, prima la otterranno. Al contrario, più aumenterà il numero di tessere stracciate, più si allontanerà l’uscita dal tunnel.

Iscriversi ai sindacati, però, serve a poco se non si partecipa attivamente alla vita della propria organizzazione. La tessera è un arma, ma se il lavoratore se ne sta lì senza far nulla, serve da peso morto aggiunto all’immobilismo della burocrazia sindacale. Una volta iscritto al sindacato, l’operaio non deve usare la tessera solo per difendersi dai padroni che lo colpiscono davanti, ma anche per non dare tregua a quei burocrati sindacali che lo pugnalano alle spalle con accordi al ribasso. Ci si deve iscrivere ai sindacati, insomma, per trasformarli e rimetterli in carreggiata, perché da organizzazioni a tutela della carriera dei sindacalisti, ritornino ad essere quello devono essere: i bastioni più forti in difesa dei nostri interessi.

Gli interinali non devono essere gli ultimi ad iscriversi, ma i primi, perché più si è colpiti e più si ha il dovere di difendersi. Senza la loro iscrizione in massa ai sindacati, gli interinali saranno usati dalle burocrazie sindacali per un duplice scopo: dividere ulteriormente gli operai e come arma di ricatto per i “fissi”. Perché la burocrazia sindacale, esclusa ovviamente quella parte minima di sindacalisti onesti, altro non è che la rappresentanza padronale in seno alla classe operaia, di conseguenza si comporta né più né meno come tutti i padroni. Gli interinali devono, insomma, iscriversi ai sindacati per darci una mano a cambiarli. Senza il loro aiuto, i pochi “fissi” rimasti, non ce la possono fare.

Quando si discute di questi problemi, molti lavoratori, forse per mettere le mani avanti, forse per trovare giustificazioni al proprio distacco, rispondono che è impossibile modificare i sindacati, che chi ci prova è un illuso che verrà fatto fuori dalle burocrazie dirigenti. Può darsi, in effetti, come tutte le caste, le burocrazie sindacali si difendono coi denti e con le unghie da chiunque provi a smuovere il loro quieto vivere ai danni dei lavoratori. Tantissimi sono i sindacalisti onesti, come Ciro Crescentini della Cgil, cacciati con un pretesto dalle burocrazie sindacali corrotte. In effetti, il rischio di essere cacciati è sempre in agguato, ma non è un buon motivo per rinunciare in partenza di correrlo. Non è davvero il caso di fasciarsi la testa prima del tempo. Chi rinuncia alla trasformazione dei sindacati è peggio che illuso, è rassegnato. E chi è rassegnato, in fondo, si merita di stare dove sta. Certo, chi si illude soltanto, potrà fare ben poco con la sua sola immaginazione, ma se alla sua si aggiunge quella di tanti altri, allora può darsi che riesca davvero a trasformare la realtà.

Non si creda, però, che la burocrazia sindacale possa cacciare a piacimento gli oppositori. Molti credono che la lotta tra la parte sana del sindacato e quella marcia sia una questione di idee, ma non è affatto così. Le idee sono importanti, ma senza la forza viva dei muscoli che le spingano avanti, non fanno nulla. Essere cacciati o meno dal sindacato è una questione di forza, non di opinioni. Dieci o venti burocrati che fanno quadrato contro una RSU volenterosa, avranno sempre gioco facile quando si tratterà di levarsela dalle scatole. Ma quando alla RSU volenterosa si aggiungeranno le altre seguite dai tanti lavoratori mobilitati per esempio a presidiare la sede locale del sindacato, allora il discorso cambierà, e può essere che al posto della RSU ci riesca di cacciare il burocrate corrotto che ha abusato del suo potere. Anche per questo problema, insomma, dipende in linea di massima da noi.

I motivi per iscriversi ai sindacati non finiscono qua, ce ne sono altri ben più importanti. Chi disdice il tesseramento, pecca quasi sempre di incoerenza. E pecca perché la decisione di stracciare la tessera è frutto di un’analisi affrettata e superficiale, mai in grado di andare fino in fondo alle sue stesse conclusioni. Chi rinuncia alla tessera, senza iscriversi ad altre organizzazioni, dimostra nei fatti di voler far a meno dei sindacati, perciò dovrebbe rinunciare alle assemblee e a tutto ciò che bene o male è frutto del sindacato, fossero pure tre euro di aumento. Dovrebbe insomma arrangiarsi da solo, contrattare le sue condizioni direttamente col padrone. Non conosco nessun lavoratore senza tessera che abbia una simile coerenza di principi. E lo credo bene, perché se uno solo dei non tesserati andasse fino in fondo alle sue idee, vedrebbe assottigliarsi ancora di più la magra paga di cui si lamenta, visto che presentandosi da solo al cospetto del padrone, non potrebbe far altro che inchinarsi alle sue pretese. E chi non riesce a farsi un’idea delle pretese di un padrone davanti a un lavoratore non sindacalizzato, ha solo da prendere il mappamondo e dare un’occhiata alle condizioni dei tanti colleghi schiacciati dalle multinazionali, in quei paesi dove non sono ancora riusciti a conquistare il diritto di organizzarsi. Inoltre, chi toglie la tessera, pensa spesso di essersi liberato dei sindacati corrotti. Se c’è uno davvero illuso, questo non è chi vuole cambiare i sindacati, ma chi crede di non averci più niente a che fare solo perché ha smesso di farne parte. Non esiste, infatti, un solo lavoratore privo di tessera che non abbia subito tanto quanto gli altri tutte le recenti fregature come lo scippo del Tfr, l’allungamento dell’età lavorativa e tutti gli altri ignobili accordi firmati dalle burocrazie sindacali. Questa è la prova decisiva, per chi ancora ne cercava una, a favore dell’iscrizione ai sindacati. Le ultime truffe sindacali dimostrano palesemente un fatto: la burocrazia sindacale, per ora, è più forte di chi ha la debolezza di abbandonarla. E non ha senso uscire da un’organizzazione quando di fatto questa ha ancora il potere, schiacciante, di decidere della tua vita. Solo chi è in grado davvero di vivere senza i condizionamenti dei burocrati sindacali, può avere una ragione di stracciare la tessera. Farlo mentre il sindacato fa ancora il bello e il cattivo tempo della nostra esistenza, significa impedirsi qualsiasi possibilità di contrattacco. Chi si è arreso, dirà che almeno ha risparmiato gli oltre cento euro di iscrizione annuale sborsati dagli illusi. Ma non è vero – e per capirlo basterebbe guardare agli ultimi vent’anni – i cento euro che il rassegnato crede d’aver risparmiato, se li è pappati tutti il padrone. Perché tutta la storia del movimento operaio dimostra che al di fuori dell’organizzazione, l’operaio non è in grado di guadagnare nulla. L’unica maniera che l’operaio ha di risparmiarsi qualche soldo, non è togliere i finanziamenti alle sue organizzazioni, ma costringerle a usarli come arma di pressione sui padroni perché restituiscano, sotto forma di salario, tutto il profitto che han fatto sfruttandolo a sangue.

Tutta la storia del movimento operaio dell’ultimo secolo, può essere grosso modo descritta come il ciclico tentativo delle masse di liberarsi dalle burocrazia sindacali corrotte. Ad ogni ondata di mobilitazione, i vertici sindacali hanno fatto da freno alle richieste dei lavoratori, facendogli ottenere molto meno di quello che avrebbero potuto. E tuttavia, la spinta dal basso è stata così forte, che molto importanti sono stati i diritti conquistati. Pur scuotendole dalla fondamenta, dove non abbiano trovato sbocchi rivoluzionari, i lavoratori non sono riusciti a prendere in mano le redini delle loro organizzazioni, consentendo ai vertici, tornata la calma, di continuare a concertare al ribasso ogni loro rivendicazione. Tra un periodo di grande mobilitazione e l’altro, le burocrazie hanno riportato indietro il movimento operaio. Mai però gli è riuscito di riportarlo al punto di partenza. Sempre, prima di toccare il fondo, è arrivato quel momento in cui le masse hanno deciso di tornare alla carica. Può darsi che la debacle del 1989-91, faccia arretrare molto più del solito il movimento operaio, ma finché avremo un diritto da difendere – e anche se non sembra sono ancora tantissimi i diritti da smantellare – bisognerà stare dentro le nostre organizzazioni a farci la guardia. Chi strappa la tessera, forse perché non la conosce abbastanza, non fa che uscire da questa dinamica storica, allungando i tempi di una ripresa. Togliere la tessera e uscire dalla nostra storia, però, può farlo evidentemente solo chi in fondo non se n’è mai sentito parte. Infatti, chi ci esce, non fa che abbandonare al loro destino gli operai che vi rimangono dentro. E non può essere una soluzione corretta seguire chi, con la mossa sbagliata di togliere la tessera, ci dice di fatto di arrangiarci.

A chi ancora non è convinto, posso solo dire che un investimento di cento euro o poco più all’anno, non gli costerà neanche tanto. Seguendomi e dandomi una mano, dunque, non perderà granché nei prossimi anni. Male che vada resterà grosso modo come prima. Per una volta, sia pure l’ennesima, forse vale davvero la pena di ritornare ad organizzarsi.

C’è ancora un ultimo motivo, questa volta tecnico, per iscriversi al sindacato. Un motivo che potremmo sperimentare molto presto, se continueremo a non battere ciglio davanti alla falcidia della mobilità per i più vicini alla pensione. Qualora una ditta decida di tagliare del personale, il compito delle RSU è difendere tutti a spada tratta, dando battaglia fino al completo ritiro del provvedimento. Ma non sempre gli operai possono vincere. Qualora, dopo la più energica delle battaglie, si debba giungere lo stesso ad un compromesso e accettare il taglio ad esempio di 10 persone, la RSU non deve permettere che sia la ditta a scegliere a casaccio chi mandare a casa, perché questo significa permetterle di far fuori i lavoratori più attivi e coscienti. La RSU non deve nemmeno avere come priorità la tutela delle famiglie. No! La RSU deve considerare che, pur essendo in generale al servizio di tutti, nei momenti critici è al servizio anzitutto di chi la sostiene col sacrificio pecuniario. In questo caso limite, la RSU deve pretendere che i primi ad andare a casa siano i non tesserati. E anche per i non tesserati deve pretendere che non si scelga a caso, ma che si vada in ordine decrescente, dal più anziano presente in fabbrica al più giovane. Perché è evidente che quanti più anni di anzianità ha un operaio in una determinata fabbrica, tanto più ha le spalle coperte, specie rispetto a chi vi è appena entrato con un contratto a termine. Ed è giusto, quindi, che chi meno rischia, più si sobbarchi l’onere di dare l’esempio e di tirare gli altri. Se non lo fa, è perché i tanti anni passati in fabbrica non gli sono serviti per sviluppare al meglio una coscienza, ma per uccidere del tutto quel briciolo che avrebbe anche potuto e dovuto avere. La RSU protegge tutto l’esercito dei lavoratori, ma in caso inevitabile di perdite, ha il dovere di preservarne il nerbo vitale, sacrificando i rami secchi. Perché solo preservando la linfa vitale delle sue fila migliori, la RSU può avere qualche speranza di far rifiorire anche i rami più secchi; preservando i rami secchi avrà la certezza, nel più breve tempo possibile, di vedere andare a fuoco tutto l’esercito dei lavoratori.

Qualche interinale, a questo punto, potrebbe obbiettare che di fronte allo spauracchio di essere discriminato, correranno tutti a fare la tessera, vanificando la sua iscrizione al sindacato: «Se tutti sono tesserati, infatti, in caso di licenziamento, sarò sempre il primo ad essere fatto fuori, cosa cambia per me? Niente!». Cambierà tutto, invece! Infatti, la differenza tra una fabbrica sindacalizzata al 100% e una no, è che prima del tesseramento generale avevamo una massa amorfa e disgregata di operai che viaggiavano ognuno per i fatti suoi, ora abbiamo un esercito disciplinato e compatto, pronto a rispondere colpo su colpo ai soprusi del padrone. Un esercito del genere è tanto più cosciente dei suoi diritti, da riuscire sovente ad anticipare le mosse dell’avversario. È probabile che, con un esercito del genere, si trovi la soluzione ai licenziamenti prima ancora che il padrone ne abbia immaginato uno. Senza contare che la corsa al tesseramento di tutti quelli che l’avevano stracciata, dimostrerà nei fatti quanto fosse sbagliata la loro scelta. Ecco cosa cambia.



Cgil-Cisl-Uil o Sindacati di base? – La maggior parte degli operai privi di tessera, rinuncia al sindacato mica perché lo rifiuti in sé, ma perché disgustata dalla politica remissiva dei dirigenti. A non tutti le motivazioni sopra esposte bastano per tornare ad iscriversi. Qualcuno si mostra ancora recalcitrante. D’accordo – dice – il sindacato è necessario, ma perché dobbiamo stare per forza in Cgil-Cisl-Uil, sindacati ormai di regime che firmano tutto quello che vogliono i padroni senza consultarci e che da anni non riusciamo più a controllare? Iscriviamoci ai Cobas, oppure fondiamo un nuovo sindacato, è la conclusione, sbagliata, a cui giungono ancora molti operai. Purtroppo, le cose, non sono così semplici. Se tutte le volte che gli operai perdono il controllo delle loro organizzazioni, bastasse inventarne di nuove, saremmo a posto. Non è semplicemente dalla giusta linea perseguita che si può stabilire se un sindacato sia buono o meno. Per essere valido, un sindacato deve anzitutto essere in grado di difendere tutti i lavoratori. Questo è il prerequisito minimo per essere un sindacato degno di tal nome. E solo i sindacati di massa, Cgil, Cisl e Uil, ce l’hanno. Senza aver dietro la massa, i sindacati formati da quattro gatti, potranno avere anche il programma più rivoluzionario del mondo, tanto sarà sempre il programma di nessuno. Cgil-Cisl-Uil, hanno quasi tredici milioni di tesserati e rappresentano più del 90% dei lavoratori sindacalizzati. Nonostante i continui cedimenti ai padroni, le truffe sui fondi pensioni e un’interminabile serie di altri accordi indecenti, i lavoratori continuano a iscriversi massicciamente ai sindacati confederali. Non solo, con l’avvento della crisi gigantesca del 2008, Cgil-Cisl-Uil hanno assistito a un vero e proprio boom di tessere. La sola Cgil ha registrato un aumento di oltre il 10% per quanto riguarda i giovani, le donne, gli immigrati, ma soprattutto i lavoratori precari1. L’aumento è ancora più vertiginoso quando si pensi ai tanti lavoratori disoccupati finiti in mezzo a una strada. Non è facile, infatti, aumentare gli iscritti quando la base potenziale dei lavoratori da sindacalizzare si restringe. Se si tiene conto di questo dato, si capirà quanto l’aumento già elevatissimo del 10%, non renda pienamente giustizia al boom dei tesseramenti. Qualche settario, perdendo un’altra occasione per dire qualcosa di furbo, crederà subito che le segreterie, per la loro propaganda, si siano inventate le cifre. Qualcun altro, invece, troverà l’ennesimo spunto per disprezzare quei pecoroni che, dopo tutte le malefatte dei vertici, continuano a iscriversi a Cgil-Cisl-Uil. In realtà, oltre a non esserci alcuna bugia da smascherare, non c’è niente di cui sorprendersi. Da sempre, quando la situazione peggiora, i lavoratori tendono a serrare i ranghi attorno alle loro organizzazioni storiche. Questo non prova affatto quanto siano pecoroni, al contrario, dimostra una volta di più come siano quelli che li abbandonano per andare in altri sindacati ad essere le vere pecore nere del movimento operaio. Con l’iscrizione in massa ai sindacati tradizionali, i lavoratori non fanno che mostrare la loro fortissima, istintiva coscienza di classe, con buona pace dei tanti perdigiorno che li accusano di essersi rammolliti. Fino a quando vedremo gli operai sotto i tre colori di una stessa bandiera, non avremo motivo di perdere la speranza. Solo il giorno in cui vedremo i lavoratori dispersi e divisi in migliaia di organizzazioni diverse, potremo considerare finita e persa la lotta di classe. Fino ad allora, l’iscrizione in massa dei lavoratori ai sindacati tradizionali, non farà che ribadire, a chi è cocciuto come un mulo e non lo vuol capire, che sono coloro che tolgono la tessera o che si iscrivono a nuovi sindacati ad essere gli unici incoscienti, quelli che con la loro vuota testardaggine contribuiscono come nessun altro alla nostra sconfitta. Infatti, il lavoratore che decida di attivarsi o che abbia acquistato un barlume di coscienza, uscendo da Cgil-Cisl-Uil, costringe il resto della classe operaia ancora arretrata a combattere da sola nella morsa dei padroni e della burocrazia sindacale. Ecco perché bisogna stare dentro ai sindacati confederali. Chi ci esce dimostra di pensare solo per sé, di essere incapace di pensare per l’intera classe operaia. Restituire la tessera è una scelta individualistica, avrebbe senso se fosse accompagnata da una campagna di massa contro il tesseramento, analoga a quella che fanno i sindacati per l’iscrizione. Avrebbe senso, insomma, se stracciare la tessera fosse una scelta militante. Ma non conosco nessuno che interpreti in questa maniera la sua rottura col sindacato. Chi straccia la tessera, di fatto, non milita più, e senza essersi liberato dei sindacati è doppiamente ostaggio dei padroni.

Non ha senso pretendere che tutti escano dai sindacati. Come abbiamo visto, il sindacato dà e toglie diritti, ma anche quando li toglie, garantisce ai lavoratori il prerequisito minimo per poterli riconquistare: la forza del numero. Chi toglie la tessera, oltre a non aver conquistato alcun diritto, non offre nemmeno questa garanzia ai lavoratori, come può pretendere che gli operai lo seguano? Fa la scelta di stracciare la tessera, chi si sente più furbo degli altri e trova nel disprezzarli la soluzione ai suoi problemi. Può anche darsi che più furbo lo sia davvero. In effetti non si può negare che tra i ribelli al sindacato, si trovi gente più cosciente della media. Ma uno che è davvero intelligente mette la sua intelligenza a disposizione degli altri, non la tiene tutta per sé. La vera intelligenza non ha paura di essere condivisa perché sa che solo così può moltiplicarsi. Chi se la tiene tutta per sé, sarà anche intelligente ma è arido di cuore.

Nei periodi bui come questo, quando i lavoratori sembrano accumulare solo sconfitte su sconfitte, sono in molti a riprendere la litania, che va avanti ormai da più di un secolo, secondo la quale i sindacati tradizionali sono diventati di regime e al loro interno non c’è più niente da fare. La critica, di norma, si riassume nel motto: «il sindacato è superato». L’ultima, significativa volta che questa frase ha fatto da ritornello ai pappagalli, è stato l’anno glorioso del ’68. In quegli anni sorsero numerose organizzazioni alternative al grido del sindacato che è superato. Sono passati oltre quarantanni, quelle organizzazioni non ci sono più, i sindacati superati invece sono ancora lì, più integri di prima. Oggi la Storia si ripete con la stessa superficialità di allora. Il sindacato – si dice – è superato, ma chi l’ha sorpassato continua a subirne l’andazzo. È come se in una corsa di Formula 1, non fosse il pilota di testa a dettare i tempi della gara, ma quello in coda. Il sindacato non è superato se non da quei tonti che si credono davanti perché non si sono accorti di essere rimasti talmente indietro da essere addirittura doppiati!

Quand’anche fosse vero che i sindacati sono ormai immodificabili, non avrebbe alcun senso l’uscita o la formazione di nuove organizzazioni. Un nuovo sindacato non nasce, infatti, dalla decisione di due o tre persone che si sono stufate della concertazione, ma da movimenti storici di grande portata, come ad esempio l’enorme mobilitazione operaia che da Danzica portò in Polonia alla nascita di Solidarność, il sindacato sotto i cui colpi crollò l’ex regime sovietico. Qualora Cgil-Cisl-Uil siano davvero immodificabili, l’unica cosa che possiamo fare è starci dentro a criticarne i dirigenti. Più la critica sarà implacabile e senza sconti, prima accelereremo quel movimento di massa – che poi è soltanto una presa di coscienza collettiva – che porterà alla nascita di un nuovo soggetto sindacale. Nel frattempo, la Storia e l’evoluzione di Solidarność, dovrebbero insegnarci qualcosa. Partito con grandi ideali, Solidarność si è pian piano sgretolato sotto i colpi del carrierismo e della burocratizzazione, né più né meno di tutti i grandi sindacati degli altri paesi. Evidentemente, la burocratizzazione non si elimina creando dal nulla nuove organizzazioni, perché si riforma in continuazione, perché è dentro di noi, è un fatto di incultura, di passività e di indifferenza cronica generata da tutto un sistema che lavora per questo. L’elemento burocratico si deve combattere giorno per giorno con tenacia, tenendo conto che per essere sconfitto richiederà un periodo storico molto lungo e che forse, probabilmente, neanche vedremo.

Io non credo nella maniera più assoluta alla deriva irreversibile di Cgil-Cisl-Uil. Non ci credo perché le motivazioni per abbandonarle sono sempre le stesse da un secolo a questa parte. Se i tempi fossero davvero cambiati, dovrebbero essere cambiate anche le giustificazioni di chi ci esce. E se le motivazioni di chi esce dai sindacati e ne fonda di nuovi sono sempre le stesse, vuol dire che Cgil-Cisl-Uil sono modificabili tanto quanto prima. Certo, non sarà facile trasformarle, nessuno si illuda, lo sforzo che ci attende è immane. Abbiamo da scalare una montagna talmente ripida che al confronto la parete del Nanga Parbat, scalata da Messner, è una pianura liscia e piatta come un mare d’olio. Voltarle le spalle, però, non vuol dire aver risolto il problema, ma averlo aggravato aggirandolo. Il ricordo degli operai che ci hanno proceduto nella scalata dovrebbe venirci in aiuto. Non c’è operaio che non si sia trovato di fronte più o meno ai nostri stessi, identici problemi. A molti sembrano insormontabili, eppure prima di noi qualcuno è riuscito ad arrampicarsi. Non c’è nessuna ragione di credere che non possiamo farcela anche noi. È vero, anche se qualcuno prima di noi c’è l’ha fatta, in generale non siamo ancora riusciti a piantare in cima una bandiera stabile, ma abbiamo già riempito la Storia di imprese memorabili. Presto ne aggiungeremo un’altra. Basta e avanza per chi, come noi, si accinge eroicamente alla scalata.

Si tenga ancora presente che sono i barricadieri più barricadieri che si trovano sulle piazze a ritenere immodificabili Cgil-Cisl-Uil e a costruire ogni giorno nuovi sindacati-setta. I barricadieri che hanno sempre in bocca le parole rivoluzione e lotta di classe, nella loro superficialità, non si rendono neanche conto che ciò equivale a dire, né più né meno, che gli oltre 12 milioni di lavoratori iscritti ai sindacati non possono fare niente perché impotenti di fronte alla forza superiore e schiacciante dei padroni. A disdoro dei barricadieri, che i lavoratori non siano in grado di vincere i padroni, lo possono credere e sostenere solo dei rivoluzionari falliti che non hanno fiducia nella classe operaia. Al contrario, i rivoluzionari veri, che hanno piena e illimitata fiducia nella classe operaia, sanno che i lavoratori alla fine vinceranno e spezzeranno come un grissino anche la più tenace delle resistenze padronali, con o senza l’aiuto dei settari barricadieri. È solo questione di tempo e di organizzazione. Chi vivrà dentro Cgil-Cisl-Uil vedrà la vittoria della classe operaia, e potrà fregiarsene, chi starà fuori andrà incontro all’ennesima disfatta dei settari sulle barricate.



Cgil Cisl o Uil? – Da un punto di vista ideale, è meglio un operaio iscritto a un sindacato di quattro gatti, di uno che rinunci ad ogni tesseramento, perché il primo, pur sbagliando campo di battaglia, dimostra almeno la volontà di combattere. Di fatto, però, è meglio non iscriversi ad alcun sindacato, piuttosto che iscriversi agli innumerevoli sindacatini setta. Chi non si iscrive più, infatti, a differenza di chi si iscrive alle sette, almeno non rema contro.

Fondamentale, dunque, è iscriversi ai sindacati di massa, ma non sarei onesto se dicessi che una volta scelti i sindacati confederali, non fa differenza iscriversi a Cgil Cisl o Uil. Se sono iscritto alla Cgil è perché penso che gli operai più coscienti siano iscritti lì. Di conseguenza, l’ideale sarebbe che tutti si iscrivessero alla Cgil. Sarebbe però ridicolo pretendere che gli iscritti alla Cisl o alla Uil, passassero alla Cgil. Altrettanto ridicolo sarebbe pretendere che tutti i nuovi iscritti si tesserino per la Cgil. Questo vuol essere un programma di lotta, non un manifesto di propaganda. Se gli operai iscritti o non ancora iscritti verranno alla Cgil, meglio, l’importante è che dovunque decidano di stare, in Cisl come in Uil, facciano opposizione interna alle rispettive burocrazie, esattamente come i lavoratori più coscienti della Cgil, fanno attualmente opposizione ai loro dirigenti. È inutile cambiare tessera, bisogna cambiare il modo di stare dentro a un sindacato. Chi ha la tessera della Cisl o della Uil se la tenga stretta, cominci però ad usarla. Cambiare la tessera per continuare a seguire ciecamente la nuova burocrazia di riferimento, non serve a niente. Non è facile opporsi alle rispettive linee sindacali, soprattutto perché ancora oggi la maggior parte dei lavoratori, primi fra tutti i componenti delle RSU, credono di aver come unico compito quello di andare dietro come cagnolini a tutto quello che i loro superiori decidono sulla loro testa. Non si deve stare in Cgil Cisl o Uil per seguire senza fiatare la propria parrocchia, ma per difendere tutti i lavoratori. È in questo servilismo acritico, la vera forza che spinge avanti per inerzia la burocrazia. E non si possono accusare solo i dirigenti di un simile atteggiamento. Fino a quando le RSU interpreteranno il loro ruolo come il compitino diligente di uno scolaro immaturo, sarà difficile cambiare le cose. È facile per le burocrazie mantenere il controllo sugli operai, se mentre li bastonano con altri accordi truffa, trovano tra i loro rappresentanti diretti, servi pronti a seguirle in ossequio alla linea anche quando questa è sbagliata. Quando le RSU si uniranno al di là delle parrocchie in difesa dei lavoratori, il movimento operaio riprenderà il suo corso.

Resta un’ultima cosa da precisare: a chi si chiede da che cosa deduca che in Cgil ci stiano i lavoratori più coscienti, rispondo semplicemente dal fatto che in Cgil ci stanno i comunisti. I comunisti non sono tutti uguali, e per uno decente ce ne sono 100 trinariciuti o semplici banderuole alla Bertinotti. Tuttavia, siano come siano, i comunisti sono i soli a cui i lavoratori possano guardare con relativa fiducia nel momento del bisogno. Su questo dovrebbero riflettere coloro che parlano con disprezzo e superficialità del crollo dell’Unione Sovietica. Il movimento operaio non è mai arretrato così tanto come negli ultimi vent’anni, dal momento cioè del crollo dell’ex URSS. Questo la dice lunga sui meriti delle “nostre” conquiste. Infatti, da vent’anni a questa parte, spariti dalla scena o relegati ai margini i comunisti, le redini del movimento operaio sono in mano ai cosiddetti riformisti. Nessuno può quindi accusare i comunisti dell’arretramento più vistoso della storia degli operai. Fino a che l’Unione Sovietica ha resistito, è stato facile per i riformisti farsi belli all’ombra dei diritti conquistati sulla scia della Rivoluzione d’Ottobre. Privati, ora, di quella stampella, mostrano il volto reale di quello che sono: controriformisti. Purtroppo per noi, il crollo dell’ex Unione Sovietica, piaccia o meno, è la più grande sconfitta storica della classe operaia, perché tutti i lavoratori, comunisti oppure no, pagano il prezzo della sua scomparsa, sia in termini di salario che di diritti.

Da un punto di vista storico, vent’anni non sono nulla per riprendersi da una tale disfatta. Dunque, che il movimento operaio arranchi ancora nel 2009, non dovrebbe stupire più di tanto. Ci vorrà forse ancora parecchio, prima che la classe operaia sia in grado di riprendersi appieno. Tuttavia, se in Occidente tarda a farlo, ottimi segnali vengono da altre parti del mondo, ridando entusiasmo a chi sa cogliere, dietro a quelle nuove battaglie, l’ennesima testimonianza della sua inesauribile vitalità. Il nostro compito è tentare di accelerare gli eventi. L’unico modo che abbiamo per farlo, è cercare di comprendere il perché di un tale tracollo. Non si tratta di fare l’apologia dell’Unione Sovietica, rendendosi ridicoli come i nostalgici alla Cossutta che ancora dormono col busto di Stalin sul comodino. Non si tratta nemmeno di procedere alla campagna diffamante e interessata dei giornali padronali. Si tratta di studiare a fondo quell’esperienza per riprendere semplicemente il cammino. Credo ci sia un solo uomo in grado di darci una mano in questa direzione. Quest’uomo è Lev Trotsky. Trotsky è l’unico che dia una spiegazione dello stalinismo compatibile con gli interessi degli operai. L’unico, cioè, che dia una spiegazione da sinistra. Ai tempi di Marx ed Engels, si usava dire che per misurare la coscienza degli operai, bastava calcolare la diffusione tra loro del Manifesto. Analogamente, oggi, possiamo determinare la ripresa del movimento operaio dalla diffusione delle opere di Trotsky. Quanto più circolerà tra le fabbriche il nome di Trotsky, tanto più potremo essere sicuri che la classe operaia sarà guarita dalla cancrena dello stalinismo.



Alcuni compiti immediati – Nei prossimi anni, il lavoro della RSU sarà complicato dalla attuale spaccatura tra Cisl e Uil da una parte e Cgil dall’altra. Non sarà possibile alcun lavoro unitario fino a che le RSU sceglieranno di stare dalla parte delle loro burocrazie anziché dalla parte dei lavoratori che li hanno eletti. Per evitare che le RSU si allineino come docili agnellini ai loro dirigenti, ci vogliono dei lavoratori che chiedano loro conto di ogni cosa. La RSU deve essere messa con le spalle al muro e costretta a prendere posizione su ogni questione, sia questa una controversia con la fabbrica oppure un qualunque accordo sindacale. Per ogni problema la RSU deve dare ai lavoratori una spiegazione che entri nel merito del perché e del percome della sua scelta. Se i lavoratori non incalzeranno le RSU, le burocrazie le useranno come copertura per infilzarli meglio.

All’origine dell’attuale spaccatura tra i sindacati, non ci sono ai vertici due linee diverse. Lo strappo della Cgil è dovuto al fatto che da anni al suo interno, contro la linea ufficiale, un’opposizione lavora per cambiarla. Ancora non c’è riuscita, per ora comunque ha impedito ai vertici di firmare lo smantellamento del Contratto Nazionale e altri accordi al ribasso.

Anche in Cisl e in Uil, seppur latente, c’è un’opposizione alla linea ufficiale. Dopo la firma per lo smantellamento del Contratto Nazionale, numerose sono state le lettere di protesta emerse dalle fabbriche e scritte da RSU di questi sindacati contro i loro vertici. Quelle della nostra fabbrica purtroppo, non erano tra loro. Sta ai lavoratori cambiare la rotta. In Cgil è più facile, correnti interne di opposizione ci sono sempre state e i vertici non sono mai riuscite ad eliminarle. È normale, la Cgil si colloca più a sinistra di Cisl e Uil, di conseguenza chi si oppone alla concertazione tende a confluire nel massimo sindacato italiano. Ma anche se in Cisl e in Uil fare opposizione è più difficile, non è impossibile. Infatti, fino a qualche anno fa, un’opposizione c’era. L’attuale capo dei CUB, Piergiorgio Tiboni, altro non è che un’ex della Fim-Cisl cacciato dal sindacato per la sua opposizione. Tiboni scelse di fondare una nuova organizzazione, la FLMU (Federazione dei Lavoratori Metalmeccanici Uniti) per poi confluire nella CUB. Tiboni e la sua corrente erano considerati i rossi della Cisl. I lavoratori di Cisl e Uil non hanno bisogno di fondare altre inutili sette, devono solo organizzare il dissenso presente nei loro sindacati e unirlo a quello già abbastanza robusto, presente all’interno della Cgil. Se lo faranno, non sarà tanto difficile trovare un punto di accordo, se invece le RSU si allineeranno come burattini alle burocrazie, bisognerà criticarle fino a quando non riusciremo a far cambiare loro idea.

Per quanto riguarda gli interinali è bene che abbiano una rappresentanza. Qualora il numero di interinali non sia sufficiente per avercela, potremo in maniera informale, eleggerne uno che collaborerà con me, elaborando assieme iniziative e proposte. Io farò solo da tramite tra lui e le altre RSU. Di più per ora non si può fare.

Infine, bisognerà tutelare quel lavoratore che, non convinto da queste mie parole, vorrà iscriversi lo stesso a qualche sindacatino-setta. Attualmente Cgil-Cisl-Uil discriminano i sindacati di base con una legge, quella del 1993, che assegna loro d’ufficio il 33% della rappresentanza. Sembra che la Cgil l’abbia disdetta, ma a parole la burocrazia è capace di far tutto. Se veramente la Cigl avrà rotto con questa pratica vergognosa, lo vedremo. Fino ad ora, le burocrazie, hanno fatto quadrato per impedire anche solo che iscritti ai Cub eccetera, possano prendere la parola e difendere le loro posizioni. Nonostante la mia assoluta contrarietà verso l’iscrizione ai sindacati extraconfederali, qualunque iscritto a un sindacato diverso da Cgil-Cisl-Uil, avrà riconosciuto il suo pieno diritto di esporre il suo punto di vista. Anzi, mi par pur giusto che, visto che sarà in minoranza, per cavalleria, dovrebbe avere il diritto di parlare per primo.

Io non temo il confronto, ne ha paura solo chi sa di perderlo per mancanza d’idee. Vedremo se i lavoratori si lasceranno conquistare dalla Cgil rimessa a posto, o dalla prima setta che la contrasta dal posto sbagliato. E visto che già non abbandonano un’organizzazione allo sbando, è più probabile che siano i fuoriusciti dai confederali a rientrare nel sindacato giusto.



Uscire dall’isolamento: informatizzarsi – Il tesseramento del maggior numero di lavoratori è il preambolo senza il quale, un programma vero e proprio, non può nemmeno cominciare. Fatto quindi tutto il dovere necessario per tesserare ogni lavoratore, il programma può davvero procedere.

La divisione del lavoro all’interno delle fabbriche e nel mondo, tende a isolare i lavoratori. Le tecnologie informatiche, rendendo istantaneo il collegamento tra tutti gli angoli del globo, hanno consentito tramite esternalizzazioni, trasferimenti eccetera, un ulteriore sparpagliamento della classe operaia. Da ciò, tutti gli intellettuali da salotto che non aspettavano altro, hanno decretato la morte della classe operaia. Tuttavia, rialzatisi più di una volta dal letto di morte sopra cui in tanti li hanno prematuramente sdraiati, gli operai non ci facciano caso ma mettano una croce sopra gli intellettualini e proseguano tranquillamente senza curarsi delle loro sciocchezze. Nonostante le corbellerie degli intellettuali a corto d’idee, le tecnologie informatiche, da sole, non hanno fatto niente. È l’uso che ne hanno fatto i padroni ad avergli permesso di disintegrare momentaneamente la classe operaia. Tutte le mosse padronali tendono a dividere la classe operaia. Se vanno in porto, come in questi ultimi anni, è solo perché dall’altra parte – dalla nostra parte – non han trovato una forza uguale e contraria che provasse a riunire ciò che loro dividevano. In effetti, a osservare attentamente la rivoluzione informatica e i suoi effetti, balza all’occhio come computer & internet siano stati usati per ora a senso unico. Solo gli intellettualini, in special modo quelli italiani, non se ne sono accorti. Quando la classe operaia comincerà a impadronirsi degli strumenti informatici, quelle stesse tecniche che hanno consentito ai padroni di dislocare in ogni dove la produzione mantenendo saldamente centralizzato il comando, gli si rivolteranno contro. Così come internet è servito ai padroni per dividere gli operai, così servirà agli operai per ricompattarsi quando cominceranno ad usarlo. Che fino ad oggi l’abbiano usato solo i padroni, non dovrebbe stupire. I padroni hanno in mano tutto, è normale, quindi, che gli operai ci mettano più tempo a sfruttare i loro stessi mezzi. Se non vogliono concedere altro vantaggio ai padroni, però, è ora che comincino a farlo.

Senza contare i lavoratori appaltati a ditte esterne, all’interno delle fabbriche i lavoratori sono isolati uno dall’altro e reparto per reparto. Internet può riunirli di colpo con una mailing-list di fabbrica. Una mailing-list è un indirizzo telematico comune, iscrivendosi al quale ogni lavoratore può comunicare con l’altro in una specie di piazza pubblica. Internet è l’unione potenziale di tutte le coscienze dei lavoratori. Cominciamo quindi a metterle assieme. Non farlo significa rimanere incoscienti della propria forza.

Il collegamento internet stringe in un rapporto strettissimo RSU e lavoratori, rendendo trasparente il lavoro delle prime. Favorisce il lavoro di gruppo, relegando sempre più il ruolo della RSU a quello di semplice coordinatore, di consigliere pratico. Con internet sarà facile integrare questo programma con tutto ciò che di buono proporranno i lavoratori. Si potrà anche buttarlo a mare tutto o in parte laddove lo si trovi superato od errato. Con internet i lavoratori hanno finalmente un programma aperto che vive e si rinnova ogni giorno con loro.

Il più grande vantaggio di internet è pero che elimina la bacheca aziendale per le comunicazioni tra gli operai. Elimina cioè l’intermediario padronale tra le RSU e i lavoratori. Da sempre, le fabbriche usano questa intermediazione come arma di ricatto. Sono moltissime le RSU licenziate per un volantino appeso in bacheca e giudicato offensivo dalla direzione. Con internet non abbiamo più bisogno di far sapere i nostri problemi interni al padrone. Sia chiaro, la lotta di classe si fa alla luce del sole, ma non è necessario scontrarsi a viso aperto quando se ne può fare a meno. Internet riduce il conflitto allo stretto necessario, togliendo molti pretesti alla direzione per ricattare RSU e lavoratori.

Quando alla direzione non riesce il licenziamento su due piedi del lavoratore attivo che si fa reintegrare sul posto grazie all’art. 18, spesso ricorre ai reparti confino per isolarlo dagli altri. Internet abbatte d’un colpo anche questa estrema difesa padronale. Se gli operai staranno tutti collegati in rete, la fabbrica può spedire anche a Timbuktu una RSU, ciò non le impedirà di mantenere il rapporto più stretto possibile con gli operai.



Responsabili di reparto – Anche se le tecnologie informatiche si stanno diffondendo rapidamente, non tutti posseggono ancora una connessione. Inoltre, chi la possiede, spesso non è molto pratico. Per quello che serve a noi, non c’è da imparare molto, un programma di posta è semplicissimo da usare. Resta il problema di chi internet non ce l’ha. Un computer è oggi alla portata di tutti gli operai, tanto più che per i nostri problemi non c’è bisogno di chissà quale macchina, una qualunque va più che bene. L’ideale quindi, per chi non ce l’ha, sarebbe quello di acquistarlo. Senza mettersi al passo della rivoluzione informatica, gli operai sono condannati a subire per il resto dei loro giorni la controrivoluzione capitalistica del 1989-’91. Chi non volesse comunque farlo o avesse dei problemi, può partecipare lo stesso. Basta che un responsabile di reparto, magari eleggibile a rotazione, si prenda la responsabilità di stampare via via, per tutti quelli che ancora non sono connessi, tutto ciò che di significativo emergerà dalla mailing-list. Al responsabile di reparto, inoltre, spetterà il compito di aiutare chi ancora ha difficoltà ad orientarsi con le tecnologie informatiche.

Farsi stampare ciò che emerge dalla mailing-list, consente al lavoratore di tenersi informato, ma la mancanza di un computer gli impedisce di offrire il suo contributo. Senza computer la sua partecipazione è dimezzata. Per completarla, se proprio non ha possibilità di informatizzarsi, può utilizzare il computer di chi ce l’ha e lo mette a disposizione. La RSU, per dare l’esempio, mette a disposizione il suo, così chiunque avrà assicurato almeno un modo per essere attivo.

Nessuno di questi problemi è veramente insormontabile se si è armati di buona volontà e di spirito di solidarietà. Io non sono un esperto di computer, con internet me la cavicchio, e quel poco che so lo metto a disposizione. Sarebbe opportuno, però, che tutti gli operai di fabbrica che con internet e computer ci sanno veramente fare, si facessero avanti. A loro vorrei affidare la responsabilità di informatizzare la fabbrica.

Internet e l’informatizzazione hanno solo due difetti. Il primo è che responsabilizzano gli operai mettendoli con le spalle al muro. Questo spaventa molti di coloro che preferiscono scaricare su qualcuno la loro insoddisfazione, piuttosto che attivarsi per cambiare le cose che non vanno. Con internet, tutto quello che faremo, sarà frutto del lavoro collettivo, chi non vorrà fare niente e si chiamerà fuori sarà ben visibile a tutti e avrà ben poco da lamentarsi.

Il secondo difetto di internet è che a tutt’oggi, come tutte le altre cose del resto, è in mano ai padroni. Internet, di tutte le ultime innovazioni, è la più rivoluzionaria. Di conseguenza, non appena gli operai cominceranno a sfruttarla politicamente, si troveranno i padroni a mettergli i bastoni tra le ruote. Internet, con la sua informazione a raggiera, è fondamentalmente acefala, difficile da controllare. Le cicliche scene di isteria dei politici che vorrebbero imbrigliare la rete per mettere a tacere coloro che li denunciano, non sono niente di fronte alla rabbia, alla persecuzione e al clima d’odio furibondo che verrà fuori non appena la classe operaia la sfrutterà per migliorare la propria condizione. Tutta la feccia del mondo, s’alzerà come un sol uomo di fronte alla minaccia degli operai informatizzati e collegati in rete contro il profitto, per la ridistribuzione della ricchezza. Tuttavia, così come la stampa in mano pressoché in blocco ai padroni, non ha mai impedito agli operai di trovare canali alternativi per informarsi, così i tentativi di imbrigliare la rete non fermeranno la volontà degli operai di sfruttarla per la difesa dei loro interessi. Poiché in definitiva, quanto gli operai potranno sfruttare la rete, non lo deciderà questo o quel decreto, ma come sempre la lotta. In ultima analisi, la libertà in rete, al pari della libertà di stampa, non è frutto di ingenue manifestazioni a favore del pluralismo e altre ingenuità liberali: la rete libera è una questione di forza. Intanto, per premunirsi da eventuali censure padronali, non sarebbe male che gli operai facessero propria la filosofia di Gnu-Linux e del software libero. Questo programma, tanto per fare un esempio, è scritto con Open Office.


Cassa di resistenza per la solidarietà – Tutte le mosse padronali si riducono in fondo ad una: dividere gli operai per accorciare il salario. Tocca alle RSU tenerle assieme anche contro i loro attacchi. Se è vero ad esempio che la cassa-integrazione ha colpito qualcuno senza andare a rotazione come inizialmente pattuito, non è tanto per colpa della dirigenza ma delle RSU che non son state capaci di allestire una cassa di resistenza che riequilibrasse il divario tra chi veniva messo in cassa-integrazione e chi no. In caso di cassa integrazione ogni mese chi vorrà potrà mettere una quota, ad esempio 50 euro, in una cassa di resistenza. A fine mese si calcoleranno i giorni totali di cassa integrazione e si dividerà la cifra ottenuta per quel numero. Il risultato darà la quota di integrazione giornaliera della cassa di resistenza alla cassa integrazione. In questo modo la RSU e i lavoratori riequilibreranno da sé ciò che i padroni hanno squilibrato artificialmente.

Quando manca la solidarietà interna vuol dire che è assente anche quella esterna. Se la cassa integrazione viene sospesa, non deve per questo cessare la solidarietà dei lavoratori con i colleghi di altre fabbriche che ancora la soffrono. Ogni mese va raccolta una cifra, per esempio 10 euro, da destinare alla solidarietà verso i lavoratori di altre aziende (Phonemedia Cerutti eccetera tanto per fare degli esempi). La solidarietà deve partire dai primi che si impegnano, cioè dai capi, non venire pretesa dai lavoratori che hanno meno responsabilità di loro. Dunque non sono stati i lavoratori a non essere solidali, come ha sostenuto la RSU uscente, è la RSU che da quando è entrata in servizio non è mai stata capace di offrire semplici esempi di solidarietà come questo.


Giornale di fabbrica per l’assemblea permanente – Come giustamente si dice, nel mondo non c’è foglia che si muova senza che lo voglia un operaio. Gli operai azionano un meccanismo gigantesco senza per altro averne il controllo. Fino a che non lo prenderanno, tutti i problemi del mondo ruoteranno attorno a loro. L’unico modo che abbiamo per risolverne almeno qualcuno è cominciare ad occuparcene. I problemi che gravitano sulle nostre spalle sono immensi e di varia natura. È evidente che non si possono affrontare come si deve con solo 10 ore di assemblea all’anno, di cui tre oltretutto perse, di norma, per la propaganda delle burocrazie sindacali. Abbiamo bisogno di uno spazio libero permanente per confrontarci e informarci. Questo spazio è la mailing-list. Non c’è bisogno di un giornale vero e proprio che peserebbe ulteriormente sulle nostre tasche, basta una specie di bacheca collettiva all’interno della quale far circolare articoli, impressioni, domande, critiche e tutto ciò che i lavoratori troveranno di significativo.

La mailing-list giornale di fabbrica, dovrebbe essere obbligatoria per ogni RSU. Infatti dovunque ci siano operai che rialzano la testa, c’è sempre un foglio, un giornale o un qualunque altro pezzo di carta che metta nero su bianco la loro voglia di riscatto. È naturale, ogni volta che l’operaio si risveglia, ha bisogno di far circolare le idee che gli frullano in testa. Una RSU senza giornale dovrebbe essere costretta subito alle dimissioni, perché rappresenta di fatto il lavoratore disinformato e senza idee. Anche all’YKK, come in quasi tutte le fabbriche, ogni due mesi l’operaio riceve, assieme alla busta paga, il giornale aziendale. Questo giornale non è semplice spazzatura come sostenuto da qualcuno, è anche propaganda, serve a riempire la nostra testolina dei disvalori aziendali. Alla propaganda padronale si deve rispondere sistematicamente con la propaganda operaia. Tanto più che la differenza tra le due, è che la propaganda padronale è costretta a dire bugie, la propaganda operaia invece non ne ha bisogno, è quindi più convincente.

Come tutti coloro che non hanno bisogno di dire bugie, gli operai sono dei potenziali letterati. La letteratura nella sua essenzialità, infatti, si nutre di verità. La totale sincerità con cui un lavoratore può affrontare i problemi, coincidendo con il nocciolo della letteratura, fa sì che ogni volta che ne abbiano avuto la possibilità, gli operai abbiano espresso una notevole predisposizione per l’arte della scrittura. Senza giornale, la RSU spreca il potenziale di una creatività che non ha eguali, per sottomettersi alla propaganda padronale ancora prima di aver dato battaglia .

Fatto il giornale di fabbrica, a ruota deve seguire la biblioteca di fabbrica. Chiunque abbia voglia di gestirla si faccia avanti. Molti libri e opuscoli si trovano ormai su internet e possiamo farli girare con un clic. Per quelli che mancano, il regolamento prevede la possibilità di vendita all’interno dello stabilimento. Tutti i nostri problemi, in ultima analisi, si riducono al basso livello culturale. A grandi linee si può dire che li risolveremo man mano che riusciremo ad elevarlo.

Gli operai, però, non devono sentirsi per questo inferiori ad altre categorie sociali. Il basso livello culturale non è dovuto alla mancanza di un pezzo di carta, sia questo una laurea o un diploma, ma alla propaganda padronale che impedisce all’operaio di veder chiaro. Propaganda padronale che colpisce oramai tutti gli strati sociali, rendendo di fatto l’operaio uguale agli altri. La cultura di cui abbiamo bisogno, è una cultura di classe, e questa non si impara a scuola, dove di norma ci si laurea in cultura generale del padrone. La cultura di classe si impara in fabbrica e fuori contrastando la controcultura del padrone che si infiltra continuamente sotto la nostra pelle. Il primo passo per emanciparsi dall’ideologia padronale, è liberarsi dal complesso d’inferiorità che ancora oggi colpisce molti operai. Ho sentito troppi colleghi darsi dell’ignorante. Non è vero, l’operaio non è più ignorante di altri e non è inferiore a nessuno. Gli unici inferiori sono quelli che dopo essersi fatti mantenere dagli operai, ancora li disprezzano, dimostrando così in maniera lampante tutta la volgare, irredimibile imbecillità di cui sono fatti. L’operaio non scenderà mai a quel livello, sia quindi orgoglioso e fiero di sé, il resto verrà di conseguenza.

In generale, e in Italia specialmente, gli operai non leggono molto. Non posso quindi pretendere che di colpo diventino tutti gran divoratori di libri. Per andare bene, basterebbe che riuscissero a dedicare alla lettura anche solo una sera alla settimana. Due o tre ore di lettura di opere di un certo spessore e saremo a metà dell’opera. Coloro che proprio non ce la fanno, facciano almeno lo sforzo di leggere tutto ciò che il sindacato distribuisce. Qualora non capiscano, più per colpa del linguaggio burocratico dei sindacati che loro, sfruttino il giornale-mailing-list e chiedano spiegazioni fino a quando ogni virgola non sarà chiarita. Senza comprendere appieno tutte le sciocchezze che escono dalla testa dei vertici sindacali, gli operai non riusciranno mai difendersi e saranno condannati in eterno a subirne le giravolte.



Oltre i cancelli di fabbrica: allargare l’orizzonte – L’isolamento di cui soffrono gli operai all’interno di una fabbrica è niente al confronto con l’isolamento esterno. Il 99% dei nostri problemi non stanno dentro la fabbrica, ma fuori, nella dinamica stessa dei rapporti complessivi tra Capitale & Lavoro, tra padroni e operai. Ne viene che una RSU che si occupi solo di calendario ferie, di passaggio di categoria, di premio di risultato eccetera, di fatto non si occupa di nulla. Ed è proprio per questo che le manovre delle burocrazie sindacali sono tutte tese a depotenziare le RSU, perché meno le RSU possono occuparsi dei nostri veri problemi, più le burocrazie sindacali hanno la possibilità di camparci sopra.

Perfettamente in linea con il qualunquismo dei vertici sindacali, da una decina d’anni a questa parte, da quando cioè sono entrato in fabbrica, non ho sentito altro che riempire l’aria di discorsi sull’inettitudine dei padroni, sulla disorganizzazione del lavoro e sull’incompetenza dei dirigenti. Può darsi che in tutto questo, una parte di verità ci sia. Tuttavia, sostenere simili tesi, mentre la classe padronale realizza i più grandi profitti della Storia e noi arretriamo ai livelli dell’800, vuol dire comprendere al contrario la realtà, cioè non capirne un tubo. Per risolvere i nostri problemi non bisogna inventarsi una realtà inesistente. Se c’è una cosa che negli ultimi vent’anni emerge in maniera inequivocabile, è l’incapacità del movimento operaio di rispondere all’offensiva padronale. Non sono i padroni a non sapere fare il loro lavoro, sono i sindacalisti, RSU in testa, a improvvisare il loro. Il compito delle RSU non consiste nel dover insegnare ai padroni come organizzare il lavoro in fabbrica, ma nel mettere in riga i lavoratori nella lotta contro i padroni. Osservare come si muovano i padroni, è il primo compito delle RSU. Già abbiamo visto che mentre loro stampano il loro giornale di propaganda, noi non abbiamo nient’altro che una misera bacheca per rispondere a tono. E così come non siamo all’altezza dei padroni per quanto riguarda la stampa, siamo indietro anche per il resto. Infatti, come organizzano il lavoro i “nostri” capi? Tutte le filiali della multinazionale YKK, bene o male, viaggiano assieme, i nostri dirigenti si incontrano regolarmente da qualche parte con i capi delle consociate turche, spagnole, tedesche eccetera, per discutere assieme il da farsi. La dirigenza prova cioè a coordinarsi internazionalmente. Solo le rappresentanze unitarie dei lavoratori, viaggiano ancora a livello nazionale, ognuna slegata dall’altra e per i cavoli suoi. Proprio per questo, quindi, a dispetto del titolo, non sono per niente unitarie. In una multinazionale con un centinaio di filiali sparse per il mondo, infatti, le RSU di un determinato stabilimento, non sono affatto la rappresentanza unitaria, ma un centesimo di quell’unità, dunque un’unità irrisoria, disgregata.

Con la globalizzazione, l’operaio è stato colpito davanti e di dietro, da est a ovest come da nord a sud. Una RSU che agisca solo a livello locale, dunque, appare come un generale paraplegico che di fronte al fuoco incrociato dei quattro venti, risponda su un solo versante. Le multinazionali sono un’idra dalle mille teste, colpirne solo una è come sparare a salve. Per far fronte a mille teste, ci vuole una RSU che ne abbia almeno una ben piantata sul collo. Se da anni non riusciamo più ad ottenere nulla, è perché concentrarsi su un solo bersaglio quando ne hai cento da colpire, vuol dire andare all’assalto con le polveri bagnate. Finché continueremo ad attaccare scoordinati come l’armata Brancaleone, saremo senza speranza di significativa vittoria.

Grosso modo tutta l’attività della RSU deve essere dedicata a questo, a unire a livello internazionale (almeno europeo) i lavoratori della multinazionale. Chiunque conosca una lingua diversa dall’italiano si faccia avanti, avrà l’incarico di stringere i rapporti con le RSU del paese corrispondente. Qualora scarseggino operai con conoscenza di lingue straniere, andremo a cercarci i traduttori necessari tra gli studenti e gli immigrati. L’immigrazione è il più grande aiuto per un movimento operaio che sappia sfruttarla per la sua unione a livello internazionale. Se potessimo avere uno straniero per ogni paese in cui sia presente una filiale dell’YKK, sarebbe facile chiedergli di farci da tramite. Il vantaggio della globalizzazione è che accelera questo aspetto rendendolo possibile ogni giorno di più. In attesa della traduzione simultanea fornita dai calcolatori, la RSU deve rendere consapevoli i lavoratori del fatto che ogni immigrato inserito in fabbrica, è la traduzione vivente del collegamento tra gli operai di due diversi paesi che lavorano per la stessa multinazionale.

Stranieri o meno, in sé e per sé, unire le fabbriche a livello internazionale dovrebbe essere facile. Le difficoltà oggettive sono minime. In fondo Cgil-Cisl-Uil, sono affiliate alla Confederazione Europea dei Sindacati (Ces) e a quella mondiale. Non dovrebbe essere difficile mettersi in contatto con le RSU degli altri paesi. La difficoltà sta tutta nei soggetti che dovrebbero darsi da fare per una simile impresa. Anzitutto, c’è da scommetterci, gli operai che proveranno a unirsi a livello internazionale, troveranno a sbarragli la strada, con cavilli e scuse di ogni genere, i loro burocrati, tutti terrorizzati da una mobilitazione che vada più in là della semplice testimonianza. L’idea che gli operai possano emanciparsi dalle loro direttive, facendone a meno, terrorizza i burocrati. Ma questo è il meno, se i dirigenti non vorranno darci una mano, ci arrangeremo da soli e gli imporreremo a giochi fatti l’unione internazionale. Quello che impedisce oggi una unione su scala almeno europea, è la miopia della rappresentanze sindacali. La maggior parte delle RSU non va più in là del compitino che crede le sia assegnato. Di fronte alla possibilità di una possibile unione più larga la RSU non dice no, ma l’assenso che esprime sembra più voler dare una disponibilità che una effettivo contributo alla causa. In generale, nessuna RSU nega l’importanza dell’unione a livello internazionale, ma di fronte alla necessità di procedere davvero all’unificazione sembra dire «Sì, è una buona idea, io però sono qua, faccio il mio dovere, se poi riusciamo a mettere assieme i lavoratori d’Europa, tanto di guadagnato». La RSU non riesce ancora a concepire un lavoro che non sia di routine. Se deve fare qualcosa che esca dal canovaccio che ha in testa, si sente sperduta come un marinaio del medioevo fuori dalle Colonne d’Ercole. Tocca ai lavoratori premere perché le RSU cambino radicalmente il loro modo di fare. I lavoratori devono pretendere che le RSU si dedichino quasi esclusivamente a questo. Sotto la pressione dei lavoratori anche le RSU si convinceranno della necessità di unire tutte le filiali di una multinazionale. Tutto il resto delle normali occupazioni delle RSU deve essere subordinato all’unione dei lavoratori su scala internazionale. Non è che premi di risultato, passaggi di categorie e ferie non siano importanti, al contrario, è proprio coordinando i lavoratori su scala internazionale che potremo ottenere più facilmente passaggi di categoria e tutto il resto.

L’unione su scala internazionale avverrà gradualmente. La prima mossa, quella più semplice e a portata di mano, è mettere assieme le due fabbriche di Ascoli e Vercelli. Per farlo abbiamo bisogno che il giornale di fabbrica mailing-list vada oltre i nostri cancelli e arrivi fino là. Oggi non abbiamo stampa operaia. Tutta la nostra informazione è in mano alle burocrazie sindacali che hanno trasformato i nostri giornali in semplici bollettini didascalici, senza più alcuno spirito critico né un minimo di approfondimento. Oltre a non aver possibilità di scrivere sui giornali che finanziamo, nessun burocrate si preoccupa di trascriverci sopra ciò che emerge dalle fabbriche. Se un lavoratore in un’assemblea dicesse la cosa più interessante che mai si sia sentita in una fabbrica, nessun collega di un altro stabilimento potrebbe sentirla, perché nessun dirigente esterno si preoccupa di farla circolare tra tutti gli iscritti attraverso un giornale. I giornali sindacali non descrivono quello che succede nelle fabbriche, riportano su due colonne l’aria stagnante che si respira nelle stanze grige in cui siedono i burocrati. Oltre al giornale di fabbrica, dunque, abbiamo bisogno di un giornale delle fabbriche fatto da tutti i lavoratori e coordinato dalle RSU. Tale giornale, non può che essere un sito o un blog. Il blog deve fare da raccordo tra le RSU e da punto di riferimento tra gli operai, non solo per le YKK di Vercelli e di Ascoli, ma per tutte le fabbriche d’Italia e potenzialmente del mondo.

Unirsi fabbrica per fabbrica vuol dire grosso modo moltiplicare esponenzialmente le proprie forze. Se ipotizziamo per un attimo le fabbriche come tutte uguali, scioperare ad Ascoli come a Vercelli vuol dire mobilitare circa 400 persone. Scioperando solo a Vercelli ci vogliono due giorni per mobilitare lo stesso numero di persone. Ma due scioperi di un giorno di 200 persone l’uno, non hanno la stessa forza di un unico sciopero di 400 persone, ne hanno precisamente la metà. Ecco che scioperare assieme moltiplica per quattro le forze. Uno sciopero simultaneo di Italia e Spagna, dunque, le moltiplica per otto e così via.

La stesso discorso vale per due fabbriche di ditte diverse. Molti lavoratori pensano che ogni fabbrica faccia per sé, che quindi ciò che succede nelle altre non li riguardi. Questo è il modo migliore per vedersi sconfitti dappertutto. Quando si hanno problemi come la cassa-integrazione, è quasi un suicidio affrontarli da soli. Purtroppo, finché gli operai osserveranno la chiusura delle altre fabbriche senza far nulla, sperando soltanto che non tocchi a loro, non caveremo ragno dal buco. Se ci si pensa come classe, la prospettiva cambia, poiché la cassa-integrazione alla Cerutti, per esempio, riguarda già una parte di noi. Unirsi ai lavoratori della Cerutti rafforza la lotta di entrambi. Non si creda che ogni padrone pensi solo per sé, i padroni hanno molto più sviluppata di noi la coscienza della loro classe. Sanno quindi che tutte le fabbriche di Vercelli ferme, sono un cattivo esempio e un richiamo per tutte le altre città d’Italia. Fermata tutta Vercelli, il contagio fa presto ad arrivare a Novara e a Torino e alle altre città d’Italia. E prima di vedersi ammorbata dagli scioperi tutta la penisola, non c’è padrone che non accetti di scendere a più miti consigli.

Per portare a termine un simile progetto, abbiamo bisogno di un centro di collegamento esterno tra le fabbriche. Questo centro come ho già detto è il blog.

Per fare un blog o un sito, oggi, ci vogliono due minuti. Ai lavoratori con più dimestichezza nel campo dell’informatica spetta il compito di creare il blog più bello d’Italia. Un blog semplice, senza tanti fronzoli, chiaro e di facile consultazione. Spetta poi a tutti gli altri operai farlo diventare il fulcro di tutti gli operai coscienti, il blog senza l’informazione del quale, nessun operaio vorrà più andare in fabbrica. Questa è l’unica competizione sana ammissibile tra gli operai. La meritocrazia di cui ciancia il secondo nanetto più famoso d’Italia, per noi si misura nello sforzo che i lavoratori fanno per la difesa dei loro diritti. Di norma, più uno si sforza per rendere sul lavoro, meno si impegna a livello sindacale, cioè non merita né avanzamenti né nient’altro. L’YKK di Vercelli deve diventare la fabbrica modello a cui non guardano tutti i Brunetta a servizio dei padroni, ma tutti i lavoratori del mondo che vogliono liberarsi dai cialtroni più lazzaroni come lui.



Alla ricerca di uno scopo perduto – Mentre procediamo alla riunificazione dei lavoratori su scala sempre più larga, dobbiamo cominciare a preparare una piattaforma di rivendicazioni la cui audacia vada di pari passo con l’ingrossamento delle nostre fila. Le piatteforme burocratiche di oggi, piovono sulla testa dei lavoratori all’ultimo minuto senza che nessuno possa davvero discuterle o modificarle. Anche l’approvazione tramite voto non è che una finzione che non riesce a nascondere il fatto che, tra noi e le piatteforme, ci sia un vuoto di rappresentanza. Che senso può avere discutere all’ultimo minuto una piattaforma? Chi arriva a giochi fatti con una pergamena in mano, non viene per discutere, ma per metterci sopra il sigillo di ceralacca che ne abbellisca l’ipocrisia con una semplice formalità. Finché i lavoratori accetteranno brontolando che i burocrati facciano il bello e il cattivo tempo, le cose non cambieranno mai. Troppo occupati a soddisfare le loro voglie, i burocrati non verranno mai a chiederci prima cosa vogliamo noi. Per avere una nostra vera piattaforma bisogna anticipare i burocrati. Gli operai dell’YKK devono scrivere loro una piattaforma e portala avanti facendola conoscere pian piano a un numero sempre più vasto di operai. Quanti più operai la faranno propria, tramite i loro contributi, tanto più avremo la forza di imporla ai vertici al posto della loro.

Grazie alla mailing-list potremo farla assieme. Saranno i lavoratori a decidere cosa vogliono, mettendo nero su bianco sulla piattaforma le loro richieste. La RSU farà solo da coordinatore e da consigliere pratico. Qua, di seguito, segnalo alcune di quelle che per me sono tra le rivendicazioni più urgenti.

Come ribadisco ormai da anni, la rivendicazione che fa da spartiacque tra un movimento operaio che rialza la testa e uno che dorme ancora della grossa, è la riduzione dell’orario di lavoro, a parità di salario, da 40 a 30 ore settimanali. È inutile prenderci in giro, la disoccupazione non è figlia di chissà quale errore. La verità è che oggi la tecnologia ha eliminato un sacco di lavoro. Per fortuna, perché è proprio grazie a questa tecnologia che è possibile ridurre l’orario di lavoro. Senza la riduzione d’orario, non possiamo mettere una pezza ad alcuno dei nostri problemi. Lavorare meno per lavorare tutti, si diceva un tempo. Bei tempi i vecchi tempi! «Se 8 ore vi sembran poche», era il ritornello di una canzone. È tempo di aggiornarlo: «Se 8 ore vi sembran poche, 6, per noi, sono ancor troppe!»

La riduzione dell’orario deve andare di pari passo con un aumento consistente del salario. Grosso modo ci occorrono 250 euro in più. Se scendiamo in sciopero assieme ad altri paesi però, dobbiamo tenere conto della dinamica salariale a livello mondiale. Con la globalizzazione, i padroni stanno perseguendo il livellamento verso il basso dei salari. Man mano che si uniranno a livello internazionale, i lavoratori dovranno procedere, al contrario, al livellamento verso l’alto. Ciò vuol dire che laddove i salari sono più bassi, bisognerà chiedere di più di 250 euro, di modo da riequilibrare pian piano verso un unico salario, europeo o mondiale, l’intera scala salariale attualmente in vigore.

Per dovere di precisazione, la riduzione dell’orario, per la legge della domanda e dell’offerta di manodopera, farà aumentare automaticamente il nostro salario, così come è sempre aumentato tutte le volte che in passato abbiamo già ridotto l’orario di lavoro.

Se per l’orario urge una drastica riduzione, per il calendario ferie ci vuole una consistente integrazione. È ora che gli operai si riposino tutto Luglio e Agosto, la settimana di Pasqua e il mese natalizio che va dall’8 Dicembre alla Befana. Di scorta, per il restante anno lavorativo, hanno ancora bisogno di 15 giorni di ferie da gestirsi come gli pare.

Per far fronte alla disoccupazione e al precariato, la sola riduzione dell’orario non basta. Bisogna anche diminuire il numero di braccia disponibili sul mercato del lavoro. La pensione dopo 30 anni di lavoro, con salario agganciato al contratto dei metalmeccanici, è d’obbligo. Costringendo una parte dei lavoratori ad andare in pensione, in contemporanea alla riduzione dell’orario, sarà abbastanza facile ottenere dai padroni nuove assunzioni e l’eliminazione dei contratti interinali.

È evidente che obbiettivi come questi non si raggiungono dall’oggi al domani, l’importante è che l’operaio cominci a marciare in quella direzione prendendo man mano ciò che viene.

Se oggi l’operaio stenta a muoversi, a mio parere, è perché ancora non sa cosa vuole. Anche l’indecisione è frutto dello stallo storico in cui si trova. Tuttavia, con una crisi dalla quale non uscirà facilmente, mai come adesso è l’ora delle grandi decisioni. Se non vuole morire di stenti, l’operaio deve scegliere. Che ognuno si guardi ben bene dentro per chiedersi cosa intenda fare. Una volta chiarito l’obbiettivo, basterà muoversi in quella direzione per raggiungerlo.

Ciò che colpisce oggi all’interno dell’YKK di Vercelli, è il clima remissivo. Gli operai sembrano subire tutto con rassegnazione. Eppure, dietro la rassegnazione, c’è un lamento continuo. Non passa giorno in cui non si senta un qualche collega imbufalito per la paga bassa, la categoria mancata, la difficoltà di arrivare alla fine del mese, eccetera. Nonostante abbiano la testa piena di desideri, gli operai, per ora, non sembrano volergli correre dietro. È in questa inconseguenza, il problema, nell’incapacità di coniugare idea e azione. Molti operai sembrano quasi convinti che loro richieste debbano piovere dall’alto dei cieli. Altri, portati forse più dal cinismo che dall’esasperazione, o forse da tutte e due le cose assieme, trovano in questa “schizofrenia” la giustificazione per disprezzare ancora di più i colleghi che in fondo – per loro – stanno ancora troppo bene. Gli operai, però, non si lamentano di gamba sana e se al mugugno non segue l’azione corrispondente, è solo perché non riescono ancora a intravedere una soluzione alla loro situazione. Pur ritenendo questo andazzo più frutto dello smarrimento che altro, una RSU ha il dovere di ribadire che dal cielo non verrà nulla. Se l’operaio vuole qualcosa, deve conquistarselo. L’unica maniera che l’operaio ha a disposizione per strappare al padrone quello che chiede, è fermare la “baracca”, scioperare. Altro modo non c’è, se qualcuno lo conosce si faccia avanti e sarò ben lieto di cambiare programma.

Se si decide di far sciopero, però, bisogna farlo bene. Fino ad ora abbiamo scioperato praticamente a caso. La colpa è ovviamente della RSU che non ha saputo spiegare né il come né il perché degli scioperi. Uno sciopero va preparato con cura, è lo sbocco dell’attività organizzativa della RSU. Uno sciopero non è solo una semplice protesta, o una testimonianza o un modo per manifestare le proprie richieste. Uno sciopero è anzitutto una forma di lotta che deve avere un obbiettivo preciso. Questo obbiettivo deve essere perseguito a oltranza fino al suo ottenimento. Quello a oltranza è l’unico sciopero corretto perché porta il massimo con il minimo sforzo. Lo sforzo è minimo non perché limitato a pochi giorni, ma perché concentra nei giorni necessari la massima forza. Scioperi diluiti, invece, sprecano molte energie per ottenere il minimo e spesso neanche quello. Ogni sciopero che si fermi prima di aver raggiunto l’obiettivo, non ha alcun senso perché è come se un calciatore si ritirasse a partita in corso. Fermarsi prima del tempo vuol dire essere partiti per niente. Solo una RSU che non vale nulla può farlo. Naturalmente, nessuna RSU può imporre a forza uno sciopero a oltranza. Il suo compito è convincere i lavoratori. Qualora non ci riesca toccherà a lei adeguarsi al livello degli operai, aspettando la loro maturazione. Altro non può fare. Guai alla RSU che proclami uno sciopero senza avere dietro la maggioranza dei lavoratori. Meglio stare tutti uniti in fabbrica a subire le vessazioni dei padroni che combattere scollati, un po’ fuori un po’ dentro. Ogni spaccatura è deleteria perché convince il padrone di avere davanti una RSU screditata. E quando il padrone vede che gli operai non seguono la RSU, si infiltra tra la loro spaccatura per approfittarne subito.

Per sciopero a oltranza, si deve comunque intendere qualcosa di relativo. L’operaio non può scioperare all’infinito, perché oltre un certo limite, un mese, due o tre, è costretto a rientrare per mancanza di fondi. Se ancora non si è ottenuto nulla dopo così tanto tempo, cosa per altro improbabile, la RSU ha il dovere di fare rientrare al lavoro gli operai, ricordando però loro che si è perso soltanto il primo round e che ora ci si deve preparare per il secondo. In sostanza, non si rientra al lavoro, perché si è accettata supinamente la sconfitta, ma per rimpinguare le casse in vista del prossimo attacco.

Alla stessa maniera, andare avanti fino al raggiungimento dell’obbiettivo, non vuol dire centrarlo perfettamente, l’importante è che si giunga a qualcosa di significativo. In altri termini, gli operai devono aver bene chiaro il punto di arrivo, ma essere disposti alla massima duttilità per arrivarci.

Dovendo preparare scioperi che coinvolgano Vercelli, Ascoli e tutte le altre filiali che via via si uniranno a noi, va da sé che bisogna essere disposti a scioperare anche quando dall’altra parte del mondo saranno colpiti dai nostri stessi problemi. Non sarà facile, perché tanta è ancora l’indifferenza degli operai per le sorti altrui. L’unico modo per vincerla, comunque, è evitare gli scioperi inutili per beghe da due soldi come una multa per chi è stato beccato nei gabinetti a fumare. Per unire su scala più larga i lavoratori, ci vogliono grandi motivazioni, non motivazioni che escano dai cessi!

Con la crisi generale, molti operai si sono irrigiditi e ancora più chiusi nella loro rassegnazione. Come facciamo a scioperare – dicono – proprio ora con la la crisi che c’è? È normale che la paura faccia novanta, tuttavia questo ragionamento è sbagliato. In generale, quando ha margini di manovra, l’operaio deve scegliere con oculatezza quando scioperare. Ma quando è messo con le spalle al muro, non ha scelta e deve battersi.

Anche se apparentemente può sembrare il contrario, con la crisi generale, l’operaio che decida di lottare, è messo meglio rispetto a prima. Prima, infatti, mentre noi eravamo in ginocchio, schiacciati da vent’anni di sconfitte, i padroni brindavano a testa alta e ridendo alle nostre spalle. Ora siamo ancora in ginocchio, ma pure loro lo sono, se ci schiacciano ancora è perché ancora non abbiamo trovato il coraggio di alzarci e dargli un calcio nel sedere.

Tocca alla RSU infondere coraggio alla truppa, fugando dubbi e dando consapevolezza. È chiaro che se la RSU non lo fa, non può poi scaricare sulla massa la sua irresponsabilità. Sono ancora troppi gli operai convinti che scioperando la fabbrica chiuda. Non è che il rischio non ci sia, ma la conclusione di un discorso simile è che più gli operai si battono, più la situazione peggiora. Tutta la storia del movimento operaio dice l’esatto contrario, meno gli operai si battono, più aumenta il rischio di chiusura. La situazione insomma peggiora man mano che l’operaio accetta tutto senza protestare. Gli ultimi vent’anni ne sono la riprova. L’abbiamo sperimentato di recente anche qua all’YKK. Può forse tornar utile, quindi, riassumere le ultime vicende.

Lasciando da parte la spaccatura vergognosa tra fissi e precari – questo infatti è un altro problema – quando la RSU è scesa in campo abbastanza decisa per aumentare il salario, quattro giorni di sciopero hanno fruttato un aumento dai 420 ai 600 euro l’anno per due anni. Conclusione: abbiamo fatto quattro giorni di ferie in più o di lavoro in meno, per avere la paga più alta. Toccava alla RSU fare il bilancio spiegando ai lavoratori come ancora una volta, come sempre del resto, sia stata la lotta a pagare. Purtroppo la RSU non l’ha fatto e sono ancora in molti oggi a credere di aver perso per niente dei soldi. Non solo, dopo questo successo, chissà perché la RSU se l’è fatta nei calzoni e invece di continuare la battaglia, ha deposto le armi. Il motivo va forse cercato nell’empirismo e nell’improvvisazione più totale della RSU uscente. Sta di fatto che dopo quella vittoria, la RSU ha subito senza fiatare il taglio degli interinali, la riduzione d’orario e l’esproprio dei PAR. Dopo aver preso tre calci nel sedere, di fronte all’ennesima controffensiva padronale – la richiesta di flessibilità – la RSU s’è desta e ha detto di no. Morale: al posto della flessibilità, cioè del salario accorciato, sono spuntati una quindicina di nuovi interinali, vale a dire il salario complessivo di tutti i dipendenti si è alzato. Di nuovo, come sempre, la lotta, in questo caso in forma di semplice opposizione, ha migliorato le nostre condizioni. Da allora, la RSU non ha avuto più sussulti e la situazione è andata via via peggiorando. Non trovando resistenza, il padrone ha intensificato gli schiaffi. Alla prima “rata” di cassa-integrazione, è seguita la seconda e una terza seguirà se la RSU non dirà basta. Il motivo è semplice: se il padrone vede che l’accorciamento della paga non smuove gli operai, va avanti poiché ogni taglio al salario è un potenziale profitto in più per l’azienda.

L’atteggiamento padronale dovrebbe insegnare qualcosa alla RSU che sa apprendere. Così come i padroni non si fermano mai nelle loro esose pretese, anche la RSU non deve sedersi al momento di una vittoria. Perché mentre festeggia in assemblea l’aumento di salario strappato, sopra di lei, una assemblea uguale e contraria fatta dalle sanguisughe, studia il sistema per riprenderselo con gli interessi. Ecco perché quel poco che abbiamo ottenuto è sparito, ingoiato dalle vicende successive. Senza dar seguito alla lotta, ogni vittoria è destinata a tornare indietro. Ogni rivendicazione portata a casa, deve quindi servire da leva per quella successiva.

Non è possibile però continuare all’infinito a presentare richieste al padrone. Arriverà sempre il momento della rivendicazione limite, oltre la quale non si potrà andare. Dunque, tutte le piattaforme rivendicative devono servire in ultima analisi per far prendere coscienza ai lavoratori dell’impossibilità di ottenere, sotto i padroni, tutto quanto occorre loro.

Per scendere in campo veramente decisi, gli operai devono avere uno scopo che vada al di là della semplice contingenza salariale. Senza darsi uno scopo più alto dell’aumento salariale, gli operai porteranno a casa, proprio come oggi, solo i loro ideali smarriti. Gli ultimi vent’anni dimostrano che solo gli ideali riempiono veramente la pancia, perché il cosiddetto realismo di cui si vantano tutti gli smidollati, la svuota. Tocca agli operai scegliere che scopo darsi, questo programma può solo indicare il suo. Lo scopo degli operai, per chi ha scritto questo programma, è il solito, la rivoluzione sociale, la sostituzione del capitalismo con il socialismo. Senza la rivoluzione in testa, gli operai non hanno alcuno scopo. O è rivoluzionario il movimento operaio – diceva a ragione qualcuno – o non è niente.

Non è il caso, leggendo queste righe, che gli operai si scaraventino in strada, sarebbe ridicolo. Avere come scopo la rivoluzione vuol dire solo che in ogni rivendicazione l’operaio deve tenere ben saldo dentro di sé l’orizzonte dentro il quale inserirla. Per ora, quello che dobbiamo fare, si riassume in quattro parole: assemblea, stampa, scioperi e mobilitazioni. Tutto qua. Ai lavoratori dell’YKK è insomma sufficiente organizzarsi per essere gli operai più rivoluzionari, disciplinati e compatti che si trovino in circolazione. Per ora non dobbiamo fare nient’altro, il resto lo decideremo insieme durante il cammino.

So bene che da anni chi prova a fare discorsi sulla trasformazione sociale, viene regolarmente sbertucciato dai tanti che si credono furbi per avervi rinunciato. Eppure il movimento operaio è nato con una grande ambizione, averla abbandonata non è indice di maturità, ma di rimbambimento precoce. Alcuni, fondamentalmente senza argomenti, dicono che bisogna aggiornarsi. Grosso modo, è quello che han fatto i dirigenti dell’ex PCI. Per loro, però, aggiornarsi fino alla sponda del Partito Democratico, ha voluto dire andare al Governo, conservare le poltrone e aumentarsi lo stipendio. Per noi, un simile aggiornamento, ha significato precariato, erosione del salario, innalzamento dell’età della pensione e perdita di ulteriori diritti. Se aggiornarmi vuol dire peggiorare la situazione, io resto tranquillamente nel passato dove sto meglio. Del resto chi si aggiorna per tornare all’Ottocento, è tanto furbo come una volpe che creda di andare avanti solo perché si è girata di spalle per proseguire all’indietro il cammino.

Il movimento operaio non ha niente da reinventare. Duecento anni di Storia gli hanno dato una spina dorsale abbastanza forte e robusta da attraversare indenne i ciclici rovesci che ha trovato e troverà sul cammino. Per fortuna le idee, che sono la cosa più bella e affascinante del mondo, non nascono ogni giorno come qualcuno vuol far credere. Quanto più sono vere, tanto più sono rare. Le teorie nate a bizzeffe in questi anni per la soluzione della questione operaia, non hanno nulla di originale. Quando non siano vere e proprie panzane, il loro unico scopo è trovare una scusa per allontanare la classe operaia dal suo vero, storico, obbiettivo. Quella apparentemente più sensata dice che gli operai, il cui numero va sempre più assottigliandosi, non sono più la classe egemone per un prossimo rivolgimento sociale. Per quanto possa spiacere a questi ciarloni, man mano che il capitalismo avanza, il suo superamento si impernia sempre di più sull’operaio. Il calo numerico degli operai, infatti, va di pari passo con l’aumento della loro produzione materiale. Tutto ciò che si produce nel mondo si fabbrica con una quantità sempre più piccola di manodopera. Di qui l’accrescimento del suo potenziale. Le sconfitte degli ultimi vent’anni hanno fatto sì, per ora, che gli operai non siano riusciti a sfruttarlo. Eppure, basta che si fermino gli operai di un paese o di una singola multinazionale perché ormai ne risenta mezzo mondo.

Disincanto, amarezza, frustrazione hanno portato molti ad abbandonare i sogni di gloria in nome dell’eterno realismo. Alla luce dei fatti, però, il tanto decantato pragmatismo, si riduce allo smettere di sognare l’utopia per lasciarsi dormire in piedi. È certo che prima o poi bisognerà svegliarsi e invertire la tendenza. Per intanto sarà bene ribadire a chi crede siano passati i tempi, che più il capitalismo va avanti, più diventa relativamente facile per l’operaio batterlo. Gli strumenti per lottare e vincere, a dispetto di chi crede il contrario, sono più numerosi e affinati oggi che nell’Ottocento. E se nell’Ottocento, operai che non sapevano né leggere né scrivere credevano che fosse possibile un altro mondo, non si capisce perché quelli del duemila, ben più colti e istruiti, debbano accettare una vita sempre più impossibile nel solito vecchio mondo.

Il discorso sulla trasformazione sociale torna prepotentemente alla ribalta con la crisi epocale del 2008. Niente è più irresponsabile di una RSU che lo eviti. La crisi del 2008 non è affatto finita e ci sono buone probabilità che sia più devastante di quella del 1929. Nessuna delle mosse prese fino ad ora dai governi l’ha veramente fermata. Ogni crisi epocale come questa è facilissima da spiegare: troppa ricchezza da una parte, troppa miseria dall’altra. Per risolverla o meglio per metterci una pezza, bisognerebbe ridistribuire verso gli operai, la ricchezza accumulata nella mani dei padroni. Per ora è stato fatto il contrario, si è prelevato dai poveri, indebitando le generazioni future, per tappare la falla dei mercati borsistici. Se oggi le quotazioni risalgono è perché gli speculatori tentano di accaparrarsi il denaro iniettato artificialmente nelle borse dai governi. Quando sarà finito, ci aspetterà un tonfo ancora maggiore, e per allora avremo purtroppo esaurito gli ammortizzatori sociali.

È veramente difficile dire come faremo ad uscire dalla crisi. Anche provando a mettermi nei panni del riformista volenteroso che non sono, faccio veramente fatica a trovare una soluzione.

Nel 1936, a 7 anni circa dal crac di Wall Street ma dopo oltre sei di lavoro, quindi quasi in concomitanza, John Maynard Keynes, il Lord dell’economia anglosassone, dava alle stampe la Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, il suo capolavoro. Questo testo e il suo autore sono tornati prepotentemente alla ribalta. Sono in tanti a chiedere il ritorno alle politiche keynesiane. John Maynard keynes, in parole povere, proponeva il finanziamento di lavori pubblici per assorbire la disoccupazione e un basso tasso di interesse per finanziare la ripresa. I fautori di Keynes dimenticano che c’è un paese in questi ultimi anni che ha tentato quella via e non ha cavato ragno dal buco. Questo paese, che noi dovremmo conoscere bene, è il Giappone, un paese che per seguire i consigli dei neo-keynesiani si è indebitato fino al collo senza ridurre di un virgola la disoccupazione. I motivi di una performance tanto negativa vanno cercati nella composizione organica del capitale. Sarebbe troppo lunga da spiegare qua cosa sia la composizione organica del capitale, al lettore basti sapere che oggi la capacità tecnologica è talmente elevata che un medio investimento di capitale dà una quantità enorme di beni e servizi con pochissimo impiego di manodopera. Ciò significa che uno Stato che applichi politiche keynesiane non fa altro che indebitarsi per impiegare tre gatti che produrranno vagonate di merci che si aggiungeranno alle altre già rimaste invendute.

Il keynesismo ha fatto il suo tempo, è una politica che va bene, per altro solo parzialmente, per l’epoca nella quale è nata. Agli operai, oggi, non essendoci all’orizzonte teorie riformiste credibili, non resta in pratica che l’alternativa rivoluzionaria. Ci pensino, quindi, e sopratutto si preparino, perché la situazione è più incandescente di quello che appare e potrebbe evolvere molto rapidamente. Se non vogliono morire di capitalismo, si tirino su le maniche per costruire un socialismo che sia migliore – speriamo! – dei precedenti. Il “fallimento” del socialismo passato, non è un buon motivo per rinunciare al socialismo futuro. Gli operai non devono temere la rivoluzione, devono solo aver paura di non farla.


Il Partito dei Lavoratori Sindacalizzati – Compiti tanto complessi come quelli sopra esposti non si raggiungono senza dispiegare in campo tutto il potenziale. Organizzarsi solo sindacalmente, vuol dire organizzarsi a metà, essere mezzo disorganizzati. Il vuoto di rappresentanza sindacale non è che il riflesso della mancanza in parlamento di un Partito dei Lavoratori Sindacalizzati. Per tutta un’epoca storica, la maggioranza degli operai ha avuto il vecchio PCI a rappresentarla in parlamento. Non è questa la sede per una disamina esaustiva del ruolo del PCI e della sua ambiguità politica. È certo che, pur con tutti i suoi difetti, la sua presenza in parlamento, faceva in qualche modo da argine alla controffensiva padronale. Sparito il PCI, infatti, è stato tutto un susseguirsi di controriforme ai danni dei lavoratori. Fino a quando non avremo una nuova stabile presenza in parlamento, sarà difficile fermare l’avanzata dei padroni. Perciò, ogni successo che otterremo sindacalmente, dovrà servire tra le altre cose per porre all’ordine del giorno la necessità di un nuovo partito.

Disorientati dalla perdita dei loro partiti storici, gli operai hanno indirizzato la loro protesta un po’ su tutto l’arco parlamentare, ma nonostante l’avanzata della Lega Nord nelle fabbriche, oggi la maggior parte dei lavoratori vota per il PD. È normale che sia così, il PD è l’erede storico del vecchio PCI, e la classe operaia, come ho già mostrato in precedenza, è profondamente attaccata alle sue organizzazioni storiche e non le abbandona tanto facilmente. Eppure, mentre il vecchio PCI con tutti i suoi limiti restava pur sempre un partito operaio, il PD è in tutto e per tutto un partito padronale. A molti lavoratori parrà strano o addirittura fuori luogo. Proprio per questo non sarà facile convincerli ad abbandonarlo. Eppure è proprio così. Ci vorrà molto tatto e sensibilità per non urtare il loro amor proprio. Il compito è complicato dalla pochezza e miseria di ciò che resta dell’altro troncone del vecchio PCI, cioè Rifondazione Comunista. Pretendere che i lavoratori votino per Rifondazione o per i Comunisti Italiani dopo che hanno voltato loro le spalle alle ultime elezioni, vuol dire non aver capito che sono i due partiti a dover andare dietro agli operai e non il contrario. Non è votando questo o quel partito costituzionale che risolveremo il problema. Alcuni operai volenterosi, in questi anni, si sono adoperati per appoggiare qualche piccola corrente. Dentro Rifondazione a me non dispiace quella di FalceMartello. Fuori, il Partito di Alternativa Comunista mi sembra proporre, in generale, buone analisi. Ma anche se potranno essere utili come fonte di informazione, da queste correnti, salvo miracoli, non verrà fuori niente di significativo. Sette sono e sette resteranno.

Tra le tante cose che hanno in comune le sette, c’è quella di voler fare credere ad ogni operaio di essere loro il vero partito. Gli operai non caveranno ragno dal buco sfogliando la margherita dei partiti alla ricerca di quello giusto. L’unica maniera che hanno per provare davvero a crearne uno di nuovo, è rendersi conto prima di tutto che il Partito sono loro, con o senza sigla. Se capiterà loro di poter lavorare dentro un qualche partito lo facciano, qualora non gli riesca non si fascino la testa. Sono i partiti che devono sforzarsi di entrare tra le fila dei lavoratori, non i lavoratori che devono bussare alle porte chiuse dei partiti. Le sette ancora non hanno capito che solo un partito di massa può aver la pretesa di essere servito e riverito dagli operai, altrimenti è lui che deve iscriversi alla scuola degli operai. Se le sette non sono in grado di mettere la loro struttura nelle mani degli operai, gli operai non si facciano problemi a prenderle a calci nel culo. Solo gli operai possono rimettere a posto l’incoscienza della presunta avanguardia, non il contrario. Non è agli operai che manca la coscienza, ma agli intellettuali che pretendono di guidarli. Una pedata ben assestata, è l’unica maniera attualmente a disposizione degli operai per costringere la presunta avanguardia a ragionare. E in effetti le ultime elezioni, sono lì a testimoniare che è proprio questa la strada intrapresa dagli operai. Se prenderanno coscienza di essere loro la forza del Partito, il problema di entrare qui o là, di votare questa o quella corrente se lo porranno solo le sette, i lavoratori l’avranno già risolto. Non c’è altro modo, in questo momento, per fondare un nuovo partito, perché al pari di un sindacato, non si improvvisa, né può nascere solo perché qualcuno ne sente la necessità. Solo da grandi movimenti storici verrà fuori il nostro nuovo partito. Discutere il problema, sentendosi già il nucleo futuro, è il modo migliore che abbiamo per accelerarne il parto.

Uno degli scogli più duri sulla strada di un nuovo partito, è la famigerata autonomia sindacale da partiti e governi, di cui si vantano persino i più avanzati tra gli operai. Autonomia e indipendenza sono una bella cosa, ma se non si guarda bene a che cosa conducano, rischiano di trasformarsi in un boomerang. Se autonomia e indipendenza sindacale vuol dire lasciare libero il parlamento ai padroni che così si fanno ancora meglio le leggi che gli occorrono, allora io sono contrario a qualunque autonomia e indipendenza. Se invece indipendenza significa essere contrari a un sindacato supino e schiavo d’un partito, allora sono d’accordo. Operai, sindacato e partito devono collaborare in un normale rapporto di interdipendenza. Il sindacato deve stare nel punto mediano tra i lavoratori e il loro partito. L’autonomia del sindacato da qualunque partito, trancia la testa al movimento operaio, è il grido dell’operaio che non ragiona. L’operaio è quasi sempre sincero quando chiede l’indipendenza del sindacato, quasi mai lo sono però i suoi dirigenti. Cgil Cisl e Uil non sono mai stati indipendenti da partiti e governi. Cgil Cisl e Uil sono stati rispettivamente il sindacato del PCI, della Democrazia Cristiana e del Partito Socialista. Oggi sono legate a doppio filo ai tanti partiti eredi di quei protagonisti della Prima Repubblica. Il problema dei lavoratori, non è sganciare i sindacati dai partiti, ma chiedersi se i partiti a cui si agganciano i sindacati siano buoni per loro, siano cioè partiti operai. Solo dai partiti padronali i sindacati devono essere indipendenti, non dai partiti dei lavoratori, non dai nostri partiti. Se le continue sconfitte del movimento operaio, attualmente hanno spazzato via una qualunque rappresentanza operaia in parlamento, le prossime vittorie la ricreeranno.

Cgil-Cisl e Uil contano assieme oltre dodici milioni di iscritti. Se scendessero in campo con un loro Partito, tenendo contro oltretutto che il tesseramento non va più in là di 35% dei lavoratori, vinceremmo a colpo sicuro tutte le elezioni. I lavoratori sono la maggioranza della popolazione ed è per questo che i padroni non vogliono che il sindacato faccia politica. Sanno che la pretesa di un sindacato autonomo dalla politica, è l’unica maniera che hanno a disposizione per tenere lontani i lavoratori dalle leve di comando. La necessità di un Partito, dunque, è tanto più urgente perché senza, gli operai sono condannati a subire e a non comandare mai.


Conclusione – Anche se a molti la situazione può sembrare tragica o addirittura senza speranza, io credo che in generale gli operai si stiano perdendo in un bicchiere d’acqua. Per rimettersi in carreggiata hanno solo bisogno di ritrovare l’orgoglio perduto e un po’ di fiducia in sé stessi. Gli operai sono poveri, sfruttati e con davanti una vita apparentemente grigia. Eppure, nonostante le privazioni e i continui salassi, hanno qualcosa che non ha nessun altro e che proprio per questo fa di loro le persone più ricche del mondo. Gli operai, non avendo veri e propri interessi che possano dividerli, sono gli unici a cui basta la solidarietà per essere davvero umani. Nessun altro gruppo sociale può aspirare a tanto, perché gli altri non possono andare fino in fondo alla solidarietà senza rimetterci qualcosa. Ed è proprio per questo che ogni altro gruppo sociale, di fronte agli operai, è fondamentalmente disumano. Solo l’umanità ha il futuro davanti. E solo per gli operai, dunque, c’è speranza di futuro. Basta che prendano coscienza di questo, perché la loro vita si illumini di tutto il colore apparentemente perduto. Molto otterranno quando ricominceranno a lottare per i loro obbiettivi. Tuttavia, senza una ripresa vigorosa del marxismo, corrono il rischio, come in passato, di disperdere molte delle loro energie, portando a casa meno di quello che potrebbero ottenere. Il marxismo fa un po’ impressione ai lavoratori che non ne vogliono più sapere di ideologia. Forse ne sarebbero più attratti se qualcuno gli spiegasse che il marxismo è sì un’ideologia, ma non è ideologico cioè dogmatico come un catechismo. Il marxismo è un prassi che arricchisce ogni giorno la sua teoria sulla base dell’esperienza diretta del movimento operaio. Tutto qua. E a dispetto di chi non vuole discorsi ideologi, l’operaio sappia che ogni volta che una RSU, come quella uscente, scende in sciopero facendo appello all’unità dei lavoratori, non fa altro, ne sia cosciente o meno, che chiamarli alla lotta sotto le bandiere del marxismo. Il marxismo, infatti, è appunto la filosofia dell’unita della classe operaia. Questo programma si propone semplicemente di passare da un marxismo vagamente spontaneo, a un marxismo cosciente e maturo, cioè al marxismo vero e proprio. Inoltre, per il marxismo, l’operaio è destinato a diventare il “Re del mondo”. Rinunciare al marxismo, cioè al trono che la Storia ci ha preparato, per continuare a fare gli schiavi è una cosa da stupidi non da persone maturi. È molto improbabile che Marx si sia sbagliato, ma anche fosse, non val la pena per gli operai dargli torto per stare dalla parte dei padroni.

Se alla fine del mandato, questo programma sarà riuscito a conquistare al marxismo anche solo una decina di persone, avrà raggiunto il suo scopo più importante. Finché dalle nostre file usciranno soldati scelti del marxismo, gli operai si riprenderanno da qualunque sconfitta, anche la più tragica. Anche se un simile risultato non sarà sufficiente per giungere alla più piccola delle vittorie, basterà comunque per garantire, a chiunque si lasci affascinare dalla sua filosofia, la fine della rassegnazione, del cinismo, del disprezzo velato per i colleghi e di tutte le altre meschinità che ancora oggi, purtroppo, abbondano nelle fabbriche. In altre parole, un programma marxista, garantirà a chi mi darà una mano per rimetterlo in piedi, la dignità. Altro da promettere, un programma credibile, non credo debba avercelo.

Il socialismo è morto! Viva il socialismo! Evviva gli operai!




ALLEGATI








Per chi volesse inquadrare questo programma in uno più generale, fondamentale è:


La crisi la paghino i padroni

Manifesto della Tendenza marxista Internazionale




Per comprendere il metodo a cui si ispirano i due programmi, fondamentale è:


Programma di transizione

di Lev Trotsky


Questo sublime testo di Trotsky che trovate al link è stato anche ristampato recentemente con una traduzione nettamente migliore dalla casa editrice Massari Editore. Il testo è corredato da un’ottima introduzione oltreché da altri quattro testi dell’autore che meglio ne precisano i contenuti. Il libro costa appena 10 euro e contiene oro purissimo e chi lo volesse acquistare può rivolgersi direttamente alla casa editrice al link:

http://www.enjoy.it/erre-emme/





Tutto il programma e i due allegati si possono leggere e scaricare in vari formati sul mio blog:


http://lorenzo-mortara.blogspot.com/






Chi avesse dei problemi a scaricarli o qualche altra richiesta

può anche scrivermi al seguente indirizzo:


lorenzomortara1976@gmail.com